di Vito Pinto
Si è appena conclusa la festosità della Domenica delle Palme e sono ancora spenti i riflettori dell’estate vacanziera, che invade i paesi della Costiera Amalfitana: bisognerà attendere domenica di Pasqua per la prima prova generale. Le stradine antiche che hanno vissuto i fasti di una gloriosa Repubblica Marinara, gli infiniti gradini consunti dai passi lenti di monaci oranti, di sera raccolgono solo la pacata luce dei lampioni; cento finestre di case aggrappate alla roccia, ancora infreddolite, occhieggiano nelle sere di una primavera appena sbocciata. E inizia quella che la Chiesa chiama “Settimana Santa”, sette giorni in cui si ricorda la passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Sette giorni di grandi silenzi, di riti popolari, echi di un tempo remoto, durante i quali il popolo cristiano vive con fede ed emozioni percorsi consolidati nell’animo dei paesi e degli uomini della divina costa. Ed è così che il quel venerdì sera, che la liturgia cattolica chiama “Santo”, tutto si abbuia, tutto scompare facendo posto alla struggente emozione che invade uomini e cose a ricordo della passione e morte di Cristo. Riti che si snodano per sentieri erti cui sovrasta il verde e giallo dei limoneti e il viola fogliato del cercis siliquatrum: l’albero di Giuda. Alto, nel cielo costiero, s’alza il canto dei battenti di Minori, dissonanza di dolore. Una tradizione musicale mai scritta, giunta sino a noi per trasmissione orale, di padre in figlio, oggi patrimonio del Ministero dei Beni Culturali, grazie allo studio del maestro Roberto De Simone. Certamente una “liturgia minore”, ma piena di mistica espressività e di pietà cristiana, capace di sopravvivere compostamente, senza contaminazioni di sorta, nell’alveo dei canti propri della Chiesa. E’ un peregrinare per le vie del paese quello dei battenti che inizia il giovedì sera, subito dopo la Messa in “Coena Domini”: la pia processione parte dalla Congrega del SS. Sacramento, pervade il paese e termina a notte fonda nella chiesa madre. Poche ore e già all’alba del venerdì inizia l’altra “peregrinatio” che invade il paese per l’intera mattinata; sostano i cantori nei luoghi religiosi disseminati un po’ ovunque a testimonianza di antica religiosità; si stringono in cerchio in slarghi e piazzette formando gruppi corali; s’alza la voce solista, si accodano le altre in un intreccio polifonico di grande suggestione: «Sento l’amaro pianto / della dolente Madre / che gira tra le squadre / in cerca del suo Ben». Tutto tace, anche la risacca zittisce e la notte s’illumina di mille, rosse fiammelle. E’ un antico “discanto” medioevale eseguito con lenta cadenza nell’incedere processionale: «Sento l’amato Figlio / che dice: Madre addio, / più fier del dolor mio / il tuo mi passa il sen». E’ “Il canto del silenzio”. Impertinente è lo scatto di una fotocamera che scruta gli occhi dei battenti attraverso i fori del cappuccio, a raccontare la teoria dei ragazzi di bianco vestiti, portatori di lampioni, di ceri, dei simboli della passione. E ferma l’attimo del canto di quei confratelli disposti a cerchio in una piazzetta-sagrato, nuvole bianche nella diafana luce del giorno che sorge sui maceri di limoni, sulla liquida superficie azzurra del sottostante mare. A sera, poi, la processione con il Cristo morto. I canti s’alzano solenni, oltre le teste dell’enorme folla, invadendo un silenzio arcano. In quest’ansa del golfo di Salerno, sono un po’ tutti simili i popolari riti del venerdì santo. Ad Amalfi la processione del Cristo morto si affaccia sulla monumentale scala della Cattedrale, a richiamo della scala di Giacobbe verso il Cielo; si snoda la processione con passo lento, cadenzato dal dolore, lungo vie e supportici traboccanti storia della città-repubblica sino a giungere alla chiesa dell’Addolorata, quasi immaginario sepolcro ove il riposo della morte è vigilia della Resurrezione. Nel silenzio del popolo amalfitano i canti del dolore sono quelli nati dalla penna di Jacopone dei Benedetti da Todi ed entrati da subito nella melodica popolare: “Stabat Mater dolorósa / iuxta crucem lacrimósa, / dum pendébat Fílius”. (Sta la Madre dolorosa / presso il legno lacrimosa /mentre pende il Figlio); si snoda la processione illuminata da fiaccole lungo vie e supportici della città marinara; si proietta la mente a quegli anni della storia in cui “Contra hostes fidei semper pugnavit Amalphis” così come riportato su un grande pannello in ceramica accanto agli antichi arsenali. In una pubblicazione con suggestive foto di Corradino Pellecchia e testi raccolti dalla personale memoria giovanile, Massimo Bignardi scrive: «Il vociare, gli occhi lucidi delle donne, il vaporoso biancore dei camici, gli sguardi che la fede vela di mistero è quell’istante in cui la comunità si ritrova tutta nel dolore». Non meno suggestivo ed emozionante è il rito della “schiodazione” a Positano. “Passio Domine nostri Jesu Christe secundum Johannes” annuncia il Diacono dall’ambone: si raccontano le ultime ore del Nazareno; alla fine, un brivido scende lungo la schiena, entrano gli incappucciati portando i simboli della Passione: il martello e le tenaglie per togliere i chiodi, il bianco lenzuolo della Sindone e il letto funebre sul quale adagiare il Cristo morto. Novello Giuseppe d’Arimatea, il parroco batte il martello sui chiodi da sfilare dalle mani del Crocifisso, scivolano sul viso lacrime di pietà. E poi il lento salire della processione, delle mille, tremolanti fiammelle che si inerpicano lungo strade aduse alla gioia della vita, al sorriso dell’estate, ai mille idiomi del mondo. Ondeggia la statua del Cristo morto, ondeggia quella della Madre Addolorata: «Priva del caro Figlio / Madre, tu sei restata / afflitta e sconsolata / immersa nel dolor» cantano gli incappucciati nel bianco vestito cinto da rozza corda a ricordo di flagellazione. Uno strano silenzio cala sulla divina costiera adusa al vociare gioioso, vacanziero di adulti e bambini: ma in questi giorni uomini credenti e non, locali ed ospiti vivono il Mistero, durante il quale si narra, nello stesso istante, di morte e di vita. Resta nel chiuso dell’anima di ognuno il racconto della ri-creazione dell’uomo dopo quel «Tutto è compiuto» nel passaggio dal tempo finito della vita, alla vita senza tempo. Ritornano alla mente i versi della lauda di Jacopone: «Quando corpus moriétur, / fac, ut ánimae donétur / paradísi glória». (Quando il corpo muore, fa’ che all’anima sia data la gloria del paradiso).