«Quant’ebbi d’illusione religiosa l’ho messo nel Requiem, dominato però interamente da un sentimento tutto umano.»
Assenza e presenza del Dies irae. Da Fauré al cinematografo. Riflessioni dopo l’ascolto dell’esecuzione del capolavoro nella chiesa dell’Annunziata
Di Alfonso Mauro
La prima salernitana del Requiem di Gabriel Fauré, tenuta domenica sera all’Annunziata, induce alcune divagazioni che è grato sperare interessanti. Per tutto il Secolo Lungo, pur con numerose istanziazioni preludenti e successive, fu presso i pentagrammi più impegnati consuetudine (ri)presentarsi spiritualmente engagé attraverso la musicazione della Scrittura o della Liturgia; e principale vettore di questa mise en abyme esistenziale, erta (irta) sulle bacchette di centinaia d’autori, fu appunto la messa da requiem. Dunque, una meditatio mortis collettiva, e con quel tanto necessario di πυρὸς καὶ θείου, fire and brimstone da riuscirla cara ai Romanticismi. Ma, appunto, il Godot di cui ci è dato disperare l’arrivo sul catafalco del Fauré di fin de siècle è la sequenza del Dies irae (Dies irae, Tuba mirum, Rex tremendae, Confutatis, Lacrimosa)! L’omissione del theatrical è ovviamente una dichiarazione di poetica; e a ragion veduta, avendo lo Stesso scritto, a riguardo, che “Tout ce que j’ai eu de l’illusion religieuse … je l’ai mis dans mon Requiem … dominé d’un bout à l’autre par un sentiment bien humain” e ancora “on a dit qu’il n’exprimait pas l’effroi de la mort … Mais … je sens la mort comme une délivrance heureuse”. Ma la stella fatale dei requiem resta il qui assente apocalittico plot twist attribuito alla penna di Gregorio Magno (o altri) e al motivo in Modo Dorico del canto gregoriano; si tratta di dolenti note ubique, e che abbiamo più o meno consciamente associato alla morte per secoli. Gli originari queruli accenti del canto si sarebbero ripresentati, citati, variati, traviati, travisati, parodiati, digitalizzati; sarebbero diventati sorta di corale meme (musicale) ante litteram, coscienza-memoria uditiva generale, massime quando il materiale musicale e testuale si diffuse oltre il religioso sic et simpliciter, iniziando a sbocciare fleurs du mal ogni dove: Haydn, sinfonia 103; Berlioz, Sinfonia fantastica; Liszt, Totentanz; Mahler, sinfonia 2; Rachmaninov, Rapsodia su un tema di Paganini; Holst, The planets; Shostakovich, sinfonia 14; Khachaturian, sinfonia 2; e assai numerosi altri…
Ma ciò che sorprende è la capacità del tema di reincarnarsi ancor più pop, e di permeare la cultura di massa fin nella colonna sonora delle pellicole cinematografiche, dove sarà citatissimo. Fin dai primi film muti, esso è estratto ed estrapolato ulteriormente, e utilizzato quale puntello uditivo d’una azione scenica ominosa. Ricordiamo i film muti accompagnati sovente da musica dal vivo: pianoforte solo (così, nel cinemino dietro l’angolo, apprese enfant prodige Dmitri) o intere orchestrine cui compito era propellere l’immagine. Come in “Metropolis” (1927) sci-fi tedesco capostipite nel servirsi del Dies irae, attraverso una stenografia musicale e una sedimentata capacità del pubblico d’associare brani a situazioni; seguiranno, poi, tra le (tante) altre, le colonne sonore di La vita è meravigliosa (1946), Il settimo sigillo (1957), Arancia meccanica (1971), Shining (1980), The nightmare before Christmas (1993), Il signore degli anelli (2001), Pirati dei caraibi (2011), Doctor sleep (2019)… La citazione è transustanziata, e così culturalmente radicata da ergersi a Leitmotivmetatestuale e metamusicale collettivo — e rappresentante la morte (col belletto di tutte le sue sfaccettature umane contingenti, e di tutte le sue ridde-entertainment artistiche carolanti via etere o calzanti coturno sul palco) meglio di qualunque altro.