In un teatro Verdi tutto esaurito il ciuffo più amato d’Italia ha presentato il suo nuovo show che si divide tra clowneria, jonglerie, magia e cabaret
Di Olga Chieffi
Con quella virtù che è solo dei grandissimi artisti, l’umiltà, Arturo Brachetti, il cui tour lo ha portato al teatro Verdi di Salerno, ha salutato la formula dell’“one man show”, “trasformandola” in uno spettacolo composito, che accoglie magia, jonglerie, cabaret e la clownerie più pura di Luca & Tino, I Lucchettino, una specie di Pinco Panco e Panco Pinco di Alice in the Wonderland, che a sipario ancora chiuso hanno trasformato la platea del Verdi in un tendone da circo, interagendo con il pubblico che stava accomodandosi in sala. Quindi, in una stazione, in un non-luogo, luoghi di incontri e di perdite, di scambi, di decisioni, inizia il viaggio iniziatico di Arturo Brachetti, alla ricerca del se stesso racchiuso in una valigia perduta, per salire dal III al IV livello. La sua famosa valigia rossa erutta ancora per una volta Arturo dai mille volti in giro per il mondo, russi, indiani, brasiliane, cinesi, francesi, per poi lasciar spazio ai rappresentanti delle diverse tappe della sua vita artistica, la “Giovinezza”, interpretata da Luca Bono, “l’enfant prodige della magia”, che si esibisce in giochi di illusionismo e di prestidigitazione facendo apparire colombe da semplici pezzi di stoffa bianca. Ancora il duo comico di Luca&Tino che fanno la parte degli idioti, mostrando il lato folle di Arturo e, infine Francesco Scimemi, che rappresenta la parte più bassa e terrestre di Arturo, quella dominata dagli istinti primari come la fame, tanto da arrivare a tentare di cannibalizzare uno spettatore in platea, con l’aiuto di un procione. Guidato dalle sibilline indicazioni di un operatore burlone Kevin Michael Moore, 328328, che si rivela poi, la sua guida per ascendere al IV livello, Brachetti inscena il meglio del “quick change” che trova forse l’apice creativo nel fumettone western della seconda parte dello show, in cui l’artista – giocando tra videoproiezioni e scomparendo alternativamente tra due porte affiancate – veste sbalorditivamente i panni del pistolero, dello sceriffo, del barman, del becchino e pure della ballerina da saloon. Immancabili le suggestioni delle ombre cinesi dedicate agli animali, e la prima novità, veramente di grande effetto, giochi di luce tridimensionali, in cui il protagonista simula una lotta contro il male in un ring tratteggiato da raggi laser, dove veramente il pubblico salernitano ha visto comparire le luci d’artista. Brachetti porta in giro un varietà anche comico, surrealista, interattivo a base di scenografia realizzate col video mapping, con lievitazioni, con le tecniche del fumetto, con l’apporto del laser, con riferimenti a Magritte e con sprazzi di Pink Floyd, che non teme di scadere neanche nelle battutacce più becere da avanspettacolo. Tutto funziona come un videogame, il cui scopo è superare il livello in un clima alla Matrix, allo scopo di recuperare il senso, il contenuto della valigia. Per cercare di mettere insieme i suoi pezzi Arturo si trasforma una trentina di volte in dieci minuti, ma a creare manipolazioni sono anche gli spazi virtuali nel meccanismo di regia di Davide Calabrese che si serve della consulenza artistica di Leo Ortolan, il creatore dell’amato Rat-man. Per il finale Brachetti disegna il film della sua vita nella sabbia, ha imparato da poco e benissimo, poiché aprendo la valigia, finalmente riconsegnatagli, vi ha trovato solo polvere. Attraverso questo percorso, la presenza aliena degli altri interpreti viene riassorbita nell’animo stesso di Brachetti, quasi fossero stati manifestazioni plurime e folli dei suoi infiniti modi di essere. Un modo per fare i conti col proprio passato (“a cinquantasette anni” – scherza l’artista in scena – “è forse ora di passare ad un livello superiore”) per continuare ad essere il sogno di lui stesso.