Alberto Cuomo
Il libro del generale Vannacci sembra essere quasi scritto e divulgato a bella posta per valutare il pensiero dominante del paese, oltre i sondaggi della politica andata in ferie. È infatti del tutto strano che, pubblicato nel mese di gennaio del 2023, abbia raggiunto la notorietà solo in luglio, allorchè è stato classificato al terzo posto nelle vendite dello store di Amazon per balzare, dopo le polemiche, nel pieno dell’estate, il periodo dell’anno più proficuo per la lettura di romanzi di ogni genere, al primo posto, superando i libri di Michela Murgia e persino quelli della preparazione al concorso per circa 5000 funzionari nell’Agenzia delle Entrate. Il testo del generale aziona contenuti propri al popolo della destra, Dio, patria, famiglia, razza, anche se a questa si accenna senza termini razzisti quanto solo per marcare differenze somatiche e culturali e non per rilevare una qualche superiorità. Lo stesso generale ha tutti i caratteri e le prerogative per poter essere un capo riconosciuto negli ambienti di destra: ufficiale paracadutista negli incursori e nei reggimenti d’assalto dove ha raggiunto posizioni di comando sia nel 9° reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin” sia nella mitica brigata “Folgore”, è stato Assistente Militare del Capo di Stato Maggiore interforze in Afganistan e addetto per la difesa in Russia e Bielorussia. Il ministro Crosetto, quasi ad evitare possibili coinvolgimenti, ma in fondo, forse, per senso di colpa, ha immediatamente preso le distanze dal libro e dal generale, facendogli togliere le insegne del comando. Alla sinistra, ovvero al Pd e al M5S, non è bastato, tanto da chiedere provvedimenti più drastici, chi sa, la fucilazione, nel tentativo di parlare alla pancia dei propri simpatizzanti, favorevoli a valori laici, e inclini a difendere i diritti dei diversi, di colore, di inclinazioni sessuali etc. Si potrebbe quindi dire che la vicenda del libro sia una cartina di tornasole su cui si differenziano due populismi. Né sembri strano che, proprio per la sinistra si parli di populismo il quale, inteso degenerazione della democrazia, quella propria al liberalismo, ha invece il suo medesimo etimo se demos indica propriamente il popolo. Del resto Aristotele intendeva la demagogia, che si potrebbe assimilare al populismo, quale forma della democrazia, ponendo l’esempio dei soldati greci che si ribellarono, come un corpo solo, ad Agamennone quando propose il ritiro dalla guerra troiana. Il populismo si fonda cioè sullo stesso principio di legittimazione della democrazia, la sovranità popolare, interpretato in termini parossistici, in un ruolo del popolo non mediato e non arginato da regolamenti legislativi. E l’idea di un popolo che si muova in uno ad affermare i propri diritti appartiene a tanti teorici postcomunisti, come ad esempio Tony Negri con il suo concetto di “moltitudine” intesa oppositiva al cosiddetto “impero”. In Italia il populismo democratico si è incarnato nel Movimento5Stelle mentre Ernesto Laclau, un filosofo argentino, socialista trozskista, lettore di Gramsci, ispiratore del movimento “podemos” in Spagna e, si direbbe, di Macron e Renzi, sdoganava il populismo per i tradizionali partiti di sinistra. A dispetto di un Asor Rosa, il quale, leggendo in “Scrittori e popolo” la letteratura italiana, ne intende l’arretratezza rispetto a quella europea proprio in quanto sostenuta da valori popolari, priva di riferimenti al mondo borghese e operaio, Laclau indica già in Togliatti il leader che, nell’Italia contadina del dopoguerra seppe contemperare i suoi valori con quelli di classe nella costruzione di un partito popolare. E non era forse populismo quello dello stesso Berlinguer che invocava l’unione del popolo della sinistra con quello cattolico in nome, anche, della “questione morale”? Secondo Laclau non c’è democrazia senza la mobilitazione dei subalterni e la loro organizzazione in un soggetto collettivo che lanci la sfida all’ordine costituito determinandosi come popolo grazie a politiche populiste, che coinvolgano cioè i molti oltre il vecchio classismo. Di qui la democrazia “radicale” che richiede altresì una leadership, ovvero un sistema basato sulla centralità del capo di governo scelto direttamente dal popolo, nel prevalere dell’esecutivo sul legislativo. Se Matteo Renzi, in Italia, è stato l’interprete postcomunista di una tale idea popolar-leaderistica, oggi Giorgia Meloni si muove lungo una linea analoga che, non a caso, trova l’acquiescenza del capo di Italia Viva. Tutte le scaramucce cui assistiamo tra destra e sinistra, dal libro del generale al pagamento del conto non onorato dagli italiani in Albania, ed anche al salario minimo contro il lavoro e la contrattazione (tema questo proprio della sinistra storica oggi assunto da Giorgia Meloni) hanno sullo sfondo un conflitto rivolto a cavalcare il populismo su cui si incentrerà, probabilmente, la riforma costituzionale in tema di presidenzialismo e, prima ancora, lo scontro elettorale per le europee. In tutto questo, uomini come De Luca o Emiliano, del tutto stantii tesi come sono a difendere il proprio orticello del potere e rivolti, per questo, ad allestire formazioni locali estranee anche ai concetti tradizionali di democrazia e di partito, poco propensi all’accordo populista del Pd con il M5Stelle che li estrometterebbe dal proprio ruolo, appaiono si direbbe asini in mezzo ai suoni.