di Olga Chieffi
“O Gioia!” esclama Violetta nel recitativo della cabaletta “Sempre libera!”. Gioia vera, sino alle lacrime ha provato il soprano sarnese Gilda Fiume, uno dei luminosi nomi del magistero canoro del nostro conservatorio, nel sapere che domenica 9 maggio, al levarsi del sipario del Teatro Regio di Torino, rivedrà il pubblico. “Un felicissimo ritorno! – ha affermato Gilda Fiume che sarà la protagonista della Traviata del Regio di Torino – Non si può descrivere l’emozione di tornare a vivere il palcoscenico, il legno sotto i piedi, il profumo delle quinte, il brivido dell’apertura sipario e tutta la magia che vive intorno ad uno spettacolo. Quando abbiamo saputo che il teatro sarebbe stato aperto al pubblico non sono riuscita a trattenere le lacrime. Un artista vive di emozioni condivise con gli spettatori! È difficile adattarsi a tutte le misure covid, a partire dall’orchestra che non può stare interamente in buca, fino al contatto con i colleghi che non può mai avvenire del tutto, ma l’entusiasmo con cui sto affrontando questi giorni di lavoro è come quello di una bambina! Mi sento fortunata di tornare in scena con un ruolo tanto importante, vivrò fino all’ultima emozione”. Una Traviata questa che andrà in scena nell’allestimento realizzato nel 2018 dal Teatro San Carlo di Napoli con la regia di Lorenzo Amato, le scene di Ezio Frigerio e i costumi di Franca Squarciapino, sul podio ci sarà il maestro israeliano Rani Calderon, direttore musicale al Teatro Municipal di Santiago del Cile, un debutto alla testa dell’Orchestra e del Coro del Regio. Lorenzo Amato ha concepito questa Traviata come una riflessione sulla malattia, sul tempo che scorre via inesorabile, l’amore, la violenza delle convenzioni sociali, l’ipocrisia, il sacrificio e infine la morte. Al centro dello spazio scenico, su un fondale trasparente come un vetro, la pioggia scorre implacabilmente per l’intera durata dello spettacolo, filtrando la visione delle grandi tele pittoriche create da Ezio Frigerio che descrivono gli ambienti. Un elemento che potrebbe essere visto come semplice metafora di una Parigi grigia, fredda e piovosa, ma che per me rappresenta molto di più: straniamento, allusione, stato d’animo, dolore, fino a quell’offuscamento della vista che le malattie particolarmente debilitanti provocano in ciascuno di noi. Al fianco della nostra Gilda Fiume, che debuttò nel ruolo proprio sul palcoscenico del teatro Verdi di Salerno, nel 2017, a dar voce ad Alfredo Germont, ci sarà il giovane tenore francese Julien Behr, un esordio assoluto, come altri debutti saranno quelli di Lorrie Garcia nel ruolo di Flora e quello del baritono Damiano Salerno in quello di Giorgio Germont Completano il cast: Ashley Milanese (Annina), Joan Folqué (Gastone), Dario Giorgelè (Douphol), Alessio Verna (D’Obigny), Rocco Cavalluzzi (Grenvil). Nel corso delle cinque recite si alterneranno: Luigi Della Monica e Alejandro Escobar (Giuseppe), Riccardo Mattiotto e Marco Sportelli (un domestico), Giuseppe Capoferri e Marco Tognozzi (un commissionario). “La Traviata” rappresenta il Verdi “moderno”, in primo luogo per la tempestività (la versione teatrale del romanzo di Alessandro Dumas jr., La dame aux Camélias, era andata in scena solo un anno prima), poi, per l’attualità del soggetto e della psicologia, favorita dallo spostamento della trama su di un solo personaggio. Conta, però, soprattutto l’apertura musicale, basti ricordare la costruzione di tutto il primo atto, intorno ad un unico, inarrestabile ritmo di valzer e del terzo su un sommesso parlato, la pulsione erotica mondana e la delusa intimità borghese. Echi, forse, dell’amato Schubert. Nel valzer si riflette al negativo la mondanità del Secondo Impero, una spettrale “vie parisienne”. Simmetrie. “Libiamo ne’ lieti calici” ha (in tonalità maggiore) lo stesso avvio dello sconsolato “Addio al passato”, in minore, introdotto dall’evocativo suono del clarinetto. Verdi “borghese”, organico e ribelle insieme, come ben si conviene in un’epoca in Italia ancora rivoluzionaria, in cui era tale essere anticlericale e patriottici, magari convivere con una donna senza sposarla. L’amore attraversa fremente la diseguglianza dei ranghi sociali, ma non è questione di ricchezza, ma di gap fra buona società e demi-monde, e pretende di associare stabilmente il giovane di buona famiglia e la cortigiana, che dovrebbero avere per unico legame legittimo il piacere mercenario e temporaneo. La comunicazione s’interrompe per un dislivello incolmabile di amore. L’esistenza dissipata ha preparato Violetta alla passione senza ritorno, alla dedizione assoluta, mentre Alfredo si è soltanto infatuato della brillante esperienza della cortigiana, è temporaneamente abbagliato da quel mondo, ma prontissimo a ritornare al proprio, al solido matrimonio con qualche algida e illibata fanciulla da tradire, poi, con altre più sostanziose amanti. Non ingannino i reciproci slanci amorosi del primo atto. Invero, già allora, il “croce e delizia al cor” di Alfredo è soltanto una galante serenata. Ben altro è lo spessore emotivo della “povera donna, sola, abbandonata/in questo popoloso deserto/che appellano Parigi”, che vorrebbe, in un congedo estenuato al belcantismo, “sempre libera folleggiar di gioia in gioia” e sospetta giustamente che “sarìa per me sventurata un serio amore”. Viene da pensare alla solitaria morte parigina della Callas, Violetta per sempre, al di là dell’incomparabile maestria tecnica che associava drammaticità e coloratura, per quanto di personale, di incolmabile eccesso di amore irricambiato è fluito nelle sue esecuzioni. Lo scoppio della passione compromette l’accasamento delle vergini (Germont si preoccupa di sistemare la sorellina di Alfredo e intona soave “Pura siccome un angelo”) e turba la pubblica opinione. Germont rappresenta la figura e la Legge del Padre nei confronti di una Violetta chiaramente dedita al libertinaggio per mancanza di una sana educazione paterna. Il sacrificio della passione e il saper tenere la bocca chiusa – secondo le buone tradizioni borghesi – è il contributo dell’onesta puttana all’equilibrio sociale. L’innamorato Alfredo, finge di non capire, rinfaccia alla donna che l’ha abbandonato i soldi spesi per lui, eccedendo in villania per gli stessi canoni mondani. Sul prezzo che paga si inteneriscono i carnefici, Alfredo stesso e l’odioso genitore. L’inizio dell’ultimo atto, contribuisce decisamente allo sfaldamento della struttura tradizionale a numeri chiusi, dissolti in un tessuto continuo di recitativi, slanci lirici e ricadute nel pianissimo, in piena corrispondenza alla tempesta sentimentale che investe l’affranta Violetta e alla sua illusione, proprio in punto di morte, di un ritorno delle forze vitali. Violetta morirà sull’etereo suono del violino che ricorderà ancora una volta la prima frase d’amore di Alfredo, mentre la realtà dura del palcoscenico, svelerà il maligno disegno della vita.