Lo Schiaccianoci, in scena al Teatro Verdi di Salerno, vince ma non convince l’intera platea. Su tutti la ballerina Anastasia Chubykhina. Dignitosa la performance dell’Orchestra Filarmonica Salernitana, guidata da Giovanni Rinaldi
Di OLGA CHIEFFI
E’ sempre un incanto assistere ad uno spettacolo di balletto con un’orchestra nel golfo mistico: una doppia attrazione in una. E’ quanto è riaccaduto al Teatro Verdi di Salerno, dove a conclusione di un vero e proprio tourbillon musicale dal 27 dicembre al 6 gennaio è andato in scena “Lo Schiaccianoci” di Pyotr Ilych Tchaikovsky, nella rilettura e riduzione della nota e originale coreografia di Marius Petipa, affidata al giovanissimo balletto del Classical Russian Ballet e all’orchestra Filarmonica Salernitana “G.Verdi”, diretta dal debuttante, in ambito coreutico Giovanni Rinaldi. Allestimento classicissimo, basato unicamente su qualche fondale, esule da qualsivoglia gioco di luci, quello proposto al pubblico del massimo cittadino, che ha fatto registrare per le quattro serate, il tutto esaurito, grazie anche alle innumerevoli scuole di danza della nostra città, che non hanno voluto mancare all’appuntamento con una delle opere che fa sognare chiunque inizi a muovere i primi passi sulle punte, ma sicuramente inadatto ad essere ospitato sul palcoscenico del nostro massimo. Il sogno di Masha si trasforma in viaggio iniziatico guidato dalla logica del tertium al di qua e al di là dell’opposizione dei contrari, popolato dagli spiriti dell’abisso, simboleggiati dal re dei topi e dal suo esercito che si equivalgono con gli angelici portatori di volo, figure dell’indistinto come la fata confetto, i soldatini, la coppia spagnola, quella russa, i cinesi, le odalische, che lasciano Maria sospesa in una ingannevole lucidità galleggiare su di un oceano opaco su cui ha fatto il suo deciso passo, tra le braccia del suo principe schiaccianoci, verso il superamento di quella “sottile linea d’ombra”. Esotismo, pittoresco, meraviglioso i termini per descrivere il viaggio di Maria, il cui privilegio, offertole dalla sua età, è quello di vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta una bella continuità di speranze che non conoscono pause né introspezioni, accogliendo il bene e il male, alla ricerca della formula magica della vita. L’esecuzione da parte del corpo di ballo russo è stata nulla più che l’avvicinamento ad un traguardo non così poi lontano, almeno per qualche solista: i danzatori, di un corpo di ballo ridotto ed interscambiabile, sono giovanissimi e, certamente, stanno studiando duramente per assurgere alle vette del prestigioso magistero a cui appartengono. Qualche numero in più lo abbiamo intravisto certamente nel principe, a cui ha dato vita un ottimo Ilya Borodulin, puliti i suoi manège e jetè, su di un palcoscenico risicato e poco elastico. Purtroppo sia in lui che nella protagonista, Anastasia Raykova, imprecisa nelle variazioni del pas de deux, anche se sufficientemente sostenuta dall’orchestra con la celesta, regina degli insoliti effetti coloristici del maestro russo, non è scattata la molla dell’estro, ovvero ciò che distingue un’esecuzione scolastica da quella artistica, lasciando i personaggi scialbi, senza una ben definita personalità. Ancora acerbi i giovani danzatori per ruoli così importanti, repertorio dei grandissimi, ai quali è impossibile non volare con la mente per attivare il gioco delle associazioni e, purtroppo, confrontare. Arduo il lavoro dell’orchestra, guidata Giovanni Rinaldi, con il ritorno di Fabrizio Falasca quale spalla. Poche prove per una partitura difficile, ma con validissime prime parti, ci hanno consegnato un’ esecuzione musicale in cui si è sentita la tensione di giungere dignitosamente alla fine, in alcuni punti, come, ad esempio nella battaglia dei soldatini e dei topi in cui è stata un po’ messa da parte la singolare efficacia della scrittura stringata ed incisiva, d’estrema trasparenza, sempre sul filo del rasoio tra l’effetto e il virtuosismo strumentale, che avrebbe dovuto mantenere la musica nell’ambiguità tra realtà e finzione. L’orchestra si è ampiamente rifatta nell’accoglienza della fata Confetto, personaggio graziosamente con le preziose sonorità della celesta, dell’arpa, con le fioriture morbide e sensuali del clarinetto di Luigi Pettrone e del fagotto di Antonello Capone. Il divertissement apertosi con la danza spagnola e, con il vigoroso e protagonistico solo di tromba, non lontano da quello bandistico, che apre la strada al Dottor Dulcamara dell’Elisir donizettiano, ha avuto il suo seguito nella danza araba, che ha salutato in scena la più valida delle promesse di questo corpo di ballo, Anastasia Chubykhina, centrata sulle mezze tinte e gli archi in sordina su di una suadente idea musicale proposta dai legni e dai violini, accompagnati da un leggero fremito ritmico del tamburino. Brillante la Danza cinese con il graffiante assolo dei flauti di Antonio Senatore, Giuseppe Ler e dell’ottavino di Vincenzo Scannapieco, sullo staccato dei fagotti e con la risposta degli archi in pizzicato e di tutta l’orchestra, compresa la voce penetrante del Glockenspiel, ironicamente interpretata dai ballerini russi. Il segno lo ha certamente lasciato anche il trepak, la danza russa che ha posto in luce il ballo acrobatico dei solisti. Non poche sbavature per la danse des mirlitons, con ancora i flauti in grande spolvero, in dialogo con i piatti danzanti di Rosario Barbarulo. Quadro finale con valzer dei fiori e apoteosi finale che ci ha ricondotti nella realtà dal paese dei sogni insieme a Maria donandoci quel necessario viatico di felicità per il Nuovo Anno, ben messi in attenzione dall’ultimo colpo di piatti. Applausi per tutti i ragazzi e per il direttore che si è ben sdoppiato tra palcoscenico e buca portando a fausta conclusione uno dei più spinosi classici del repertorio ballettistico.