di Gemma Criscuoli
I Russi sono soliti usare l’espressione “Sono arrivati gli imbianchini” per indicare le mestruazioni. Nel corso del tempo, tuttavia, questo rito di passaggio non è stato certo oggetto di un’ironia simile: ha al contrario suscitato scandalo, vergogna, morbosità. Questo atteggiamento rende ancora più necessario abbattere tutti i tabù sul mondo femminile. Promossa dalla Fondazione Filiberto e Bianca Menna, con il contributo della Regione Campania e in collaborazione con la Fondazione Pasquale Battista, la mostra “Il sangue delle donne – Tracce di rosso sul panno bianco” sarà visitabile fino al 14 ottobre presso Palazzo Fruscione. L’esposizione, a cura di Manuela de Leonardis su coordinamento di Marco Alfano, coinvolge sessantotto artiste italiane e straniere in una riflessione affascinante e coraggiosa su quello che è, letteralmente, il filo rosso che unisce le fasi essenziali della femminilità, dall’addio all’infanzia alla deflorazione, al parto, alla violenza inflitta da uomini che vogliono aggiogare il sesso opposto. Il pannolino, materiale recuperato nella sua umiltà, ha rappresentato il supporto su cui molte autrici hanno intessuto il loro percorso sospeso tra memoria ed esaltazione della diversità. Judy Tuwaletstiwa, per esempio, ricorre al vetro, alla carta, al gel opaco nel calcolare i suoi cicli mestruali dai dieci ai cinquant’anni, che diventano la mappa emotiva di una preghiera laica. Nell’opera di Manal Aldowayan, l’inchiostro per serigrafia mostra scorci familiari tratti da foto arabe degli anni Sessanta, in cui la figura femminile, divenendo adulta, resta paradossalmente vincolata alla condizione di minorenne, mentre Takoua Ben Mohamed mostra con tagliente leggerezza l’instabilità emotiva sbrigativamente rimproverata alla bambina in cui sboccia la vita. All’inaugurazione della mostra, che ha visto la presenza dell’assessore alla cultura Tonia Willburger, Tomaso Binga, al secolo Bianca Pucciarelli Menna, che ha proposto, a sua volta l’opera “San gue’”, recitando i suoi componimenti poetici più incisivi nella difesa della femminilità. L’esordio è stato affidato a “E non uscire di casa”, in cui la reclusione imposta alla donna è contrastata dall’urgenza di riscattare la propria libertà. In “San gue’” a sanguinare è un mondo calpestato da chi antepone il proprio ego a qualunque forma di empatia. In “Io sono una carta” si hanno le diverse tipologie di un materiale solo all’apparenza innocuo, che poi culmina in una cartuccia da sparare, metafora dell’aspirazione femminile ad essere finalmente nient’altro che se stesse. In “Par condicio” un tradimento alla pari culmina, con spiazzante spirito giocoso, nell’eliminazione fisica del traditore, mentre in “Verifica colore” il sangue blu di un borioso che non si concede gli causa un meritato accoltellamento (in Binga le vendette degli amanti sono sempre un caustico attacco a pregiudizi e cecità borghesi). In “Quante case”, l’artista associa appunto a un’abitazione ciò che ha avuto un peso nella sua vita : il ventre materno, la scuola, la cultura, l’amore. Analogia naturale, dato che le scelte diventano scenario della propria esistenza e i sogni hanno sempre alle loro spalle un lungo cammino. La conclusione non poteva non essere affidata a “Sogno ogn’or”: il desiderio (ipnotico, struggente, ostinato) di un mondo accogliente, che recuperi la sua umanità nel segno della donna.