Il ruolo dell’Utopia a Salerno in sessant’anni. - Le Cronache
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Il ruolo dell’Utopia a Salerno in sessant’anni.

Il ruolo dell’Utopia a Salerno in sessant’anni.

di Michelangelo Russo 

Avevo 14 anni nel 1961. Quarto ginnasio al Tasso. Il compagno di scuola Alberto Catalano (molti anni dopo sarà a 39 anni il più giovane primario d’Italia) mi convinse ad iscrivermi al Cosmo club. In una grande soffitta misteriosa, a Piazza Portanova, un gruppo di coetanei costruiva il futuro. Obiettivo principale: il lancio di un razzo autocostruito. Nella soffitta si parlava di spazio e di avventura. Per noi studenti dai quattordici ai sedici anni, arrivare allo spazio, seppure con un missile rudimentale, era come abbattere i confini di quei licei severi e plumbei in cui passavamo le giornate di scuola. Non potevamo sapere che tanto tempo dopo Hollywood avrebbe dato corpo ad un sogno simile, con il magnifico film “Cielo d’ottobre”, ambientato nel 1957 e basato sull’avventura di un gruppo di ragazzi affascinati dal lancio del primo Sputnik russo. Passammo due anni di riunioni, ma non lanciammo mai il razzo. Però, imparammo ad immaginare il futuro come qualcosa di concreto e raggiungibile. Come noi, altri sognarono strade diverse per arrivare all’Isola che non c’è. Questa capacità di immaginazione, indomabile e senza esitazioni, fu lo stimolo ad operare il cambiamento che accompagnò tutta la mia generazione. All’ultimo anno di liceo, nel 1965, in classe eravamo due gli iscritti alla gioventù comunista. Avevamo per docente di religione un domenicano colto e illuminato: ci parlava con naturalezza di sessualità e di rivoluzione, non demonizzando né l’una né l’altra. Un giorno chiese a Renato Peduto, il più contestatore dei due giovani comunisti, come si facesse una rivoluzione. Ricordo la risposta, subito condivisa dal sacerdote. “Quando fai una rivoluzione” rispose Peduto “non puoi mai cambiare le cose dall’oggi al domani. Devi servirti al momento di quello che c’è e devi lavorare molto per cambiare le cose”. Fummo delusi da questa soluzione. L’Utopia miracolistica era in cima alle nostre speranze. Quella ricetta di Peduto e del sapiente domenicano fu quindi scartata, per il grigiore burocratico delle riforme lente che paventava. La mia generazione seguì così, compattamente, a sinistra come a destra, l’Utopia del ’68. Grande laboratorio di crescita politica presessantottina era stato l’associazionismo giovanile. Come per i quattordicenni di Cosmo club 1961 la strada verso le stelle era stata la spinta all’aggregazione, l’associazionismo universitario e politico, soprattutto cattolico, fu la via naturale verso un dialogo politico tra le classi sociali per il rovesciamento di un Potere centrale, visto come la concentrazione del Male. Salerno ebbe circoli universitari importanti, come la Scacchiera, il Ridotto, il Petti, a centro città. Ma anche meno conosciuti, come La Spirale, al Carmine (fu il mio circolo) che per primo, forse, iniziò a superare la divisione tra campo universitario e mondo del lavoro. Il grande vento del ’68 passò troppo in fretta. L’Utopia negli anni ’70 era già finita; e con essa, l’associazionismo. La palude degli anni ’70 e ’80, a Salerno, fu alimentata dalla essiccazione dei rivoli del dialogo preesistente al ’68. La politica cittadina, come altrove, si indirizzava già a una competizione di fazioni senza orizzonti che non fossero quelli brevi degli interessi immediati di corto respiro. L’Utopia tornò inaspettata nel 1992. Non venne né dalla Politica né dalla Cultura. Venne dai Tribunali. L’Utopia legalitaria, a Salerno tra le poche nelle città del Sud, arrivò dall’Associazionismo. Ancora una volta. L’Associazione Magistrati fu forte e vivace a Salerno negli anni ’80. Lo spirito di rinnovamento in chiave legalitaria ed egalitaria era arrivato con il rientro di tanti giovani magistrati dopo la prima esperienza nelle città del Nord. Molti tornarono dai fermenti culturali gravitanti nei circuiti associativi di Torino, Milano, Bologna. A Salerno nel 1980 iniziò a crescere un gruppo nutrito di Magistratura Democratica e di Unicost, rinnovato dalla personalità indimenticabile di Luciano Santoro. E con lui Antonio Frasso, Arturo Cortese e altri che man mano rinnovarono, ribaltandolo, il modo di vedere le cose della Magistratura tradizionale. Tangentopoli non nacque dal pool del sottoscritto, di Gigi D’Alessio e Vito Di Nicola. Nacque dall’intera vita travagliata dell’Associazione Magistrati. Che faceva dibattiti, interventi popolari, documenti, assemblee aperte, in un dialogo continuo e a volte drammatico con la cosiddetta “società civile”. Dell’Utopia legalitaria di Tangentopoli il nuovo sindaco plebiscitario Vincenzo De Luca si fece alfiere. A modo suo, e con la tattica politica di consumato dirigente del Partito Comunista Italiano. Tutta la spinta della rivoluzione urbana e sociale dei suoi primi anni, che ne costruirono la fama e la gloria con il coinvolgimento nella cosa pubblica di fasce e di aree emarginate, nacque da quella intuizione Utopistica nata dalla vitalità degli anni ottanta e primi novanta del Corpo giudiziario attorno all’idea di una legalità costituzionale avverata. Ma le Utopie hanno vita breve, dopo lo slancio iniziale. Dov’è l’Utopia oggi, alla vigilia delle elezioni più noiose della storia Repubblicana. Non la conosce più nessuno. L’onda montante della destra, e per quella va intesa soprattutto il partito di Meloni, vincerà forse con i numeri. Ma non è sorretta da nessuna speranza utopistica, impegnata come è a tranquillizzare i moderati. Non promette di realizzare alcuna Utopia, se non paesaggi futuri con gli orizzonti brevi e ombrosi della Restaurazione. L’antidoto dell’associazionismo è debole e polverizzato nel dialogo virtuale di internet. Che funziona per gli appelli di allarme vero e immanente, ma non per i dibattiti stagnanti e disillusi. Eppure, la Destra, come mai noi, vecchi fans della sinistra progressista, avremmo potuto credere, è incombente e misteriosa nei suoi progetti veri. Oggi sappiamo che l’Utopia è a scadenza ravvicinata. Ed è la resistenza, con la r minuscola, all’onda di marea scura che s’avanza. La “resistenza” elettorale è la vera ed unica rivoluzione possibile, al momento. E allora tornano in mente le parole della risposta di Renato Peduto, IIIa A del liceo De Sanctis, nel 1965, al domenicano illuminato che gli chiedeva cosa fare per attuare la Rivoluzione. Renato Peduto (che Vincenzo De Luca conosce bene) rispose: “La prima cosa da fare è imparare a servirti, e a non distruggere quello che tieni e che c’è”. Anche Piero de Luca. Se solo indossasse qualche volta l’eskimo di suo padre nel 1993, e non i cappottini avvitati alla moda, ed evitasse i circoli di regime, finirebbe di sembrare Luigi XVI° direttamente erede di Luigi XIV°, saltando Luigi XV°. Prima del diluvio di destra, può esserci una speranza esile per una cittadella assediata, una Fort Alamo della sinistra. E io ricomincerei, al posto suo, un dialogo con quella parte dell’intellettualità che chiede una ricostruzione morale e culturale di Salerno. Sbaglio, o Piero De Luca fu l’unico che ricevette quel comitato di anime belle che chiedeva l’impegno serio e immediato della Politica per salvare con un Museo Civico importante il vecchio Tribunale che cade a pezzi abbandonato??

Michelangelo Russo