Stasera, alle ore 20, la bacchetta indiana dirigerà il Maggio Musicale Fiorentino in Beethoven e Cajkovskij. Special guest il violoncellista brasiliano Antonio Meneses
Di Olga Chieffi
Prosegue la LXX edizione del Ravello festival e lo fa con un carismatico ritorno. Stasera, alle ore 20 i riflettori di Villa Rufolo si accenderanno su Zubin Mehta e l’Orchestra del Maggio Fiorentino. Il direttore indiano, mancava, infatti, dal 1994 sul palcoscenico a getto sul golfo e per impreziosire questo ritorno, sarà suo ospite il violoncellista Antonio Meneses. Il programma principierà con Die Geschöpfe des Prometheus op.43 di Ludwig van Beethoven. Con la forza morale, le idee che animano la sua musica tesa nella pienezza drammatica dei contrasti, ma infinitamente umana, Beethoven è un eroe prometeico. Si è rifatto ad Eschilo per le Creature ma di fatto il suo Prometeo rappresenta lo spirito illuminista, simboleggiando la lotta per la conquista della ragione. L’eroe nel donare il fuoco, il potere della conoscenza, sceglie gli uomini, eppure i beneficiati dimostrano profonda ingratitudine, così la sua sofferenza è doppia: per la punizione di Zeus e l’irriconoscenza degli uomini. Il possente Prometeo incatenato di Nicolas Sébastien Adam si sviluppa in un vortice di dolore che si coglie dal corpo lacerato, i muscoli tesi e dal viso terribilmente contratto. L’immensa sofferenza legata anche alla sordità, conduce Beethoven a una disperazione senza ritorno. Il violoncellista Antonio Meneses regalerà al pubblico di Ravello le Variazioni su un tema rococò per violoncello e orchestra furono scritte nel 1876 da Pëtr Il’ič Čajkovskij. Si tratta di una composizione ispirata alla poetica del Settecento e in primo luogo all’esempio mozartiano, della cui musica l’autore fu un fedele e appassionato ammiratore. L’opera inizia con una introduzione orchestrale dove si dispiega la perspicace abilità e il raffinato senso strumentale del musicista; dopo il pizzicato degli archi nel dialogo con i legni si ode la romantica melodia del corno che conduce al tema delle variazioni. Interviene la frase, intonata ad un fraseggio morbido e suadente, del violoncello da cui si dipanano le sette variazioni, intercalate da interludi orchestrali e da cadenze. Cantilene fresche e gioiose dalle pastose sonorità, si alternano a momenti elegiaci e malinconici, con passaggi di bravura che coinvolgono il solista e l’orchestra, destando l’interesse dell’ascoltatore sia per la brillante scrittura del violoncello e sia per l’amabile linguaggio della strumentazione. In ciò risiede l’interesse specifico per questo brano evasivo e fantasioso, in cui non manca certamente il gioco della contaminazione e del rifacimento dello stile altrui, a livello di elegante e piacevole elaborazione orchestrale del tutto personale. Seconda parte della serata dedicata per intero alla esecuzione della quarta Sinfonia di Pëtr Il’ič Čajkovskij, composta quasi per intero nel 1877, autentico anno terribile che vide avvicendarsi nell’animo del compositore continui stati di aspettativa e avvilimento. Fu davvero un anno “fatale”, nel quale Čajkovskij realizzò lo sconsiderato progetto di sposarsi: l’unica soluzione possibile per negare a sé e al mondo la sua omosessualità. Il primo movimento si apre con la potente e tragica affermazione dell’impossibilità per l’uomo di accedere alla felicità: al proclama d’apertura di corni e fagotti si uniscono tromboni e tuba, e successivamente, come per drastica perorazione, trombe, flauti, oboi e clarinetti. A seguito di questa introduzione, che presenta il motivo fatale poi ricorrente come un’idea fissa in tutto il movimento e non solo, si apre un grande episodio tematico, in cui la melodia fondamentale, un mesto movimento di valse, viene ampiamente sviluppata in modo da trarne tutti i riflessi emotivi insiti, che vanno dalla rassegnazione alla disperata consapevolezza. Il dramma pare trovare una via di scampo nella dimensione di “sogno danzante” portata dal secondo tema, esposto prima dal clarinetto e poi dai violoncelli, con ornamentazione di scalette cromatiche dei legni. Una terza idea dà vita a un incalzante stringendo del tempo che sfocia nello sviluppo vero e proprio. Il ritorno del motivo fatale alle trombe pone fine all’elaborazione tematica e segna l’inizio della ripresa variata. La coda, dopo l’ennesimo squillo del destino, concede un’oasi di serenità che viene però travolta dalla stretta finale, il cui ritmo sussultante trascina gli archi nelle regioni acute per l’estremo lacerante grido di dolore prima della conclusione. L’Andantino in modo di canzona è fondato sulla melodia presentata in apertura dall’oboe, “semplice ma grazioso”, che torna in vari luoghi sempre sostanzialmente identica, modificata solo nel sostegno fornitole dagli altri strumenti. La parte centrale in tempo Più mosso presenta un nuovo tema dal carattere danzante, affidato a clarinetti e fagotti, che all’acme del suo sviluppo melodico viene contrappuntato da cellule ritmiche degli ottoni, desunte dal motto del destino d’apertura. La ripresa dal tema iniziale è ornata da brevi e rapidi inserti dei legni; la melodia viene poi ripartita e suddivisa tra le voci dei vari strumenti fino alla Coda, in cui la lunga riesposizione del tema al fagotto, quasi una cadenza solistica, conclude il movimento. Lo Scherzo è il movimento che riscosse maggior successo alla prima esecuzione della sinfonia, e in effetti il virtuosismo richiesto dai pizzicati degli archi, la varietà timbrica con cui i legni presentano la melodia popolaresca del Trio e la combinazione delle due realtà opposte nella conclusione del movimento, danno vita a uno degli arabeschi più fantasiosi ed elegantemente costruiti della produzione di Čajkovskij. Nel Finale pare trionfare una sana gioia di vivere. Questo aspetto festoso si può evincere dalla stessa strumentazione che chiama in causa triangolo, piatti e grancassa. La visione di vigorosa esultanza non tarda a essere interrotta dall’ennesimo ritorno del motto d’apertura; il fato incombe, la felicità è negata o relegata al sogno di un momento. Può forse esistere solo negli spiriti più semplici, che sanno far propria la spontanea allegrezza che qualche volta si accompagna alla vita.