di Olga Chieffi
Stasera irromperà Figaro, sul palcoscenico del teatro “Di Costanzo Mattiello” di Pompei. Non sarà il giovane Figaro mozartiano che prende le misure della stanza che il Conte ha gentilmente concesso a lui e alla sua promessa sposa, Susanna, ma il Figaro di Gioachino Rossini, quel barbiere che fa anche il chirurgo, il botanico, lo speziale, il veterinario e soprattutto il sensale, attività in cui è il più abile della città di Siviglia, un vero ciclone meridionale che ammucchia in fretta parole su parole per avere sempre ragione. La Nuova Orchestra Scarlatti sarà, infatti, ospite della IV Stagione Concertistica Artemus, con “Dentro il Barbiere”, uno spettacolo che propone i momenti clou del Barbiere di Siviglia di Rossini, in forma di concerto e con un’agile cornice narrativa. Sarà il giovane direttore Alfonso Todisco a dirigere la Nuova Scarlatti, punteggiando il racconto e l’analisi di Enzo Viccaro, insieme al baritono Juan Possidente che darà voce a Figaro, il tenore Gaetano Amore nei panni del Conte d’Almaviva, mentre Rosina sarà il soprano georgiano Mariam Gogochuri. Il pubblico li ama, da sempre, con un consenso che non accenna a diminuire, perchè trova qui il Rossini migliore. Personaggi pari ai cantanti saranno gli “strumentini”, i quali come loro, dialogheranno, si pavoneggeranno, si pizzicheranno, si inseguiranno e si lasceranno, aumentando via via la loro effervescenza sentimentale e libertina, coinvolgendo gli spettatori. Ricordiamo la celebre confessione di Hegel nella lettera da Vienna del 1824: “Ho sentito Il Barbiere di Rossini per la seconda volta. Bisogna dire che il mio gusto si sia molto depravato perché trovo questo Figaro molto più attraente di quello di Mozart”. Che cosa doveva aver affascinato il filosofo per condurlo sino al ripudio di Mozart ed alla vituperata preferenza per l’opera buffa italiana? Certamente, l’asciutta concretezza della musica di Rossini, la totale assenza da quel mondo poetico dei sentimenti vaghi ed inafferrabili, della tensione introspettiva tipiche della sua età; l’estetica del “non so che” era decisamente ripudiata da Hegel che aborriva tutte le tendenze sentimentali o misticheggianti del romanticismo. Non ci sembra troppo azzardato affermare che in quest’opera l’astrazione ludica e la concretezza della propulsione drammatica stanno in qualche modo fra loro come la tesi sta all’antitesi mentre, a ben guardare, nelle code vitalistiche di arie e duetti, solcate dal frequente emergere della parola e nei concertati statici, audacemente costruiti sulla base di un discorso diretto, i due elementi paiono avvicinarsi e fondersi nella conciliazione della sintesi. Tutto ciò produce quel senso di appagamento formale di perfetta organicità, con il suo gioco spasmodicamente lucido di pesi e contrappesi, che caratterizza Il Barbiere come una cifra tipica ed inconfondibile. Grandissimo spazio è dato all’elemento ludico, inteso come recupero di un’esigenza di costruzione formale dei concertati, usati, però, quale mezzo per garantire un trapasso fluido e quasi inavvertibile dall’azione drammatica all’aspetto più rivoluzionario del ludus rossiniano: la sospensione del “tempo”, o meglio il suo smisurato allargamento in seno ad episodi dove è la musica sola ad imporre la propria forma ed il proprio ritmo interiore. Il che non avviene solo a livello di aria singola, o nei duetti, ma anche nel cuore dell’azione di molti personaggi, per un totale di 318 battute su 687 comprensive dell’intero Finale dell’atto primo, in cui non succede più nulla ma si consuma questa lievitazione del dramma verso il puro delirio vitalistico dell’ultimo brano: l’intero atto trova così il proprio coronamento proporzionato all’arco descritto e capace di riprodurre in grande quello dei numeri solistici, secondo una perfetta corrispondenza delle parti al tutto, del microcosmo al macrocosmo, informati da un analogo principio dialettico.