Vince l’opera del ‘Va pensiero, con un cast soverchiato da Luca Salsi e Simon Lim. Orchestra Filarmonica con punte veronesi. Regia convincente in particolare nel momento più atteso il celebre coro dei Leviti che con i loro mantelli hanno dato quasi vita all’inferno di Accumuli e Amatrice
Di OLGA CHIEFFI
Teatro Verdi non completamente esaurito, nel giorno festivo d’Ognissanti, per questa prima del Nabucco, che inaugura la seconda parte della stagione lirica, con, ancora in carnet il Macbeth e la Tosca. Il Nabucco è l’opera di Daniel Oren per nascita e colori. Oren è un leader esigente che non esita ad andare contro i paletti della tradizione e delle abitudini, disdegnando i gusti del pubblico, se lo ritiene necessario o se pensa che la Musica lo richieda. Il suo Nabucco è basato sui grandi contrasti su di un agogica spinta tra triple p e triple f , terze strade. La drammaturgia verdiana è scritta nelle note, Oren le scalpella per eliminare incrostazioni di migliaia di esecuzioni e tornisce col suo sentire questa opera impressa nel suo corpo. L’orchestra non tradisce, le sezioni sono guidate, quasi per intero, dalle prime parti dell’Arena di Verona, a cominciare dal primo violino, Gunther Sanin, dal violoncello Sara Airoldi, dal clarinetto Stefano Conzatti e dalla superba, tromba Massimo Longhi, per il resto i legni salernitani sono al solito inappuntabili con Antonio Senatore al flauto e Domenico Sarcina all’oboe, unitamente ai “festeggiati”, Antonello Capone al fagotto e Nicola Ferro al trombone, con una menzione d’onore, questa volta, anche per la banda di palcoscenico composta da giovanissimi strumentisti. Il cast poggia sulle forti spalle di Luca Salsi, nobile e attento nel canto, padrone del ventaglio di colori vocali necessario alla esplorazione psicologica di Nabucco. Recitazione generosa ma priva di gestualità, forse necessaria a sottolineare le metamorfosi umane di una figura altalenante tra l’orgoglio superbo di un Re vittorioso e la pietà di un padre prigioniero e folle, di un personaggio ora Assiro, ora Ebreo, ora di nuovo Duce saggio, alla continua ricerca della sua identità. A contrastare la figura di Nabucco, il basso profondo Simon Lim, uno Zaccaria dalla emissione duttile e di grande autorevolezza scenica, maestoso e solenne nel canto della profezia che preannuncia la fine della schiavitù degli Ebrei e la distruzione di Babilonia. In mezzo, una deludente Abigaille, parte impervia la sua, che spazia in un vasto ambito, con la sua entrata su di un si basso “Prode Guerrier”, inizio di un recitativo fortemente tratteggiato che la Susanna Branchini ha subito, come pure le agilità dell’ aria “Anch’io dischiuso un giorno” e della cabaletta (purtroppo tagliata della ripresa), rifacendosi ottimamente nelle pagine più agevoli delle successive scene. Ha incantato la Fenena di Raffaella Lupinacci, che ha eseguito elegantemente l’aria dell’estasi “Oh, dischiuso è il firmamento!”, mentre incolore è risultato l’Ismaele di Vincenzo Casertano. A completare il cast, figure d’appoggio quali il Gran Sacerdote di Belo, ancora Carlo Striuli, una felice scoperta l’Abdallo di un giovanissimo Can Guven Murat e la Anna di Miriam Artiaco. Coro ottimamente preparato da Tiziana Carlini, protagonista assoluto in scena, al quale è stato chiesto giustamente il bis dell’attesissimo “ Va’ pensiero”. Nella ricomposizione da parte di Giandomenico Vaccari, della produzione e delle scenografie, firmate da Flavio Arbetti, datate 2013, è venuto fuori, con forza, il contrasto chiaroscurale del palcoscenico su colori sturmer non lontano dall’estetica wackenroderiana. Simbolismo con la Menorah per i Leviti o il dio Marduk, lo zodiaco e il leone alato per gli Assiri, che s’infrange nella scena finale, coppe di fiori nella scena degli orti pensili, smalti turchesi, blu, rossi intensi e verde sottobosco per i fondali, stavolta senza video-proiezioni. La scena del coro dei Leviti vale l’intera idea di regia: il coro con bambini tra i figuranti è in ginocchio disperato, disposto sulla scalea, i loro mantelli sono laceri e sembra terra arsa dal sole del deserto, coperta di polvere, fumo in scena. Inizia il canto e il popolo comincia lentamente a rialzarsi evocando, nel pathos atemporale del momento, i paesi e le popolazioni terremotate del nostro Centro-Italia. Applausi tiepidi da parte di un pubblico che forse ancora non resiste alla lunghezza di un’opera, che deve ancora scoprire.