Questa mattina alle ore 11 appuntamento nell’auditorium di Villa Rufolo a Ravello, con una riflessione sull’opera di Riccardo Zandonai di Eduardo Savarese, quale ulteriore omaggio della Fondazione a Dante Alighieri
di Olga Chieffi
Continuano i tributi alla figura di Dante Alighieri, nell’anno celebrativo dei 700 anni dalla morte, da parte della Fondazione Ravello. Dopo “Lumina in tenebris” di e con Elena Bucci e Chiara Muti, che ha impreziosito il cartellone della LXIX edizione del Festival, questa mattina, alle 11.00, nell’Auditorium di Villa Rufolo sarà Eduardo Savarese, magistrato e scrittore napoletano appassionato cultore di musica classica e teatro lirico, ad accompagnarci in un’analisi della Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, in cui l’argomento del V canto dell’Inferno è filtrato dal verso di Gabriele D’Annunzio. Titolo poco frequentato questa opera, che al brillante nitore del verso accoppia con naturalezza la pittoresca magia del suono, evocando e trasfigurando poeticamente i costumi barbari e le passioni violente di un secolo che usciva con fatica dalla fosca notte medievale. Con la Francesca da Rimini, Zandonai si divincola sensibilmente dagli schemi e formulari veristici. Buon ispiratore gli fu il teatro dannunziano che all’estro del compositore offre un’azione costantemente animata da figure in pieno e vigoroso risalto drammatico e poetico. Invero la Francesca di Zandonai non sembra ancora temere le ingiurie dell’età, che minacciano le creazioni artistiche più di essa fragili e inconsistenti. La protagonista ingannata e ingannatrice muove incontro al suo tragico destino con passo tutt’ora agile ed elastico e con accenti freschi e giovanili, avvolta nelle sottili fragranze di un profumo esotico o sentimentale non svaporato. Si possono ammirare nell’opera i notevolissimi pregi musicali del suo canto, attraverso una partitura ove l’inventiva del maestro trentino si mostra particolarmente felice, come i frutti prodotti da quella sensibilità coloristica che è fra le signorili doti di Zandonai e che accortamente ambienta e inquadra i personaggi e le situazioni del dramma. Se all’attenzione dell’ascoltatore, certo non sfuggiranno le mende altre volte rimproverate all’autore – qua e là la pesantezza dello strumentale, i riferimenti vicini e le parentele lontane facilmente individuabili (Puccini, Mascagni e Wagner) –è pur vero che tali mende non risultano mai tanto gravi da contaminare la suadente musicalità della pietosa storia d’amore e di morte, squisitamente bilanciata tra i delicati svettamenti di un lirismo dolce e castigato e gli anfratti scoscesi del declamato drammatico, flessuoso e spesso ruvidamente e caratteristicamente espressivo. Con chiaro e suggestivo effetto si snodano gli episodi graziosi e i guerreschi, gli amorosi e i truculenti. L’epilogo tragico è raggiunto con geniale progressione di interesse scenico e musicale e con raro equilibrio di mezzi fonici, anche se rivolti sovente a uno scopo meramente illustrativo. L’opera va in scena a Torino nel ‘14, ha la sua sorte fortunata, ma D’Annunzio pare non si sia recato mai una volta, in nessuna occasione, neanche negli anni successivi alla guerra, ad ascoltarla. Indubbiamente la Francesca di Zandonai è un’opera di grande vitalità, che ha resistito e resiste anche in aree musicali teatrali d’oltre Atlantico. Si tratta, però, in sede critica di vedere in che cosa consiste l’incontro fra la poesia dannunziana della Francesca e il linguaggio di Zandonai in un momento di crisi dei linguaggi musicali operistici italiani; cioè in un momento in cui il verismo era tramontato, in cui l’influenza francese si faceva sempre più evidente. In mezzo a questa crisi i musicisti che si trovavano sullo spartiacque, in mezzo al guado, non potevano che essere i così detti musicisti di transizione. C’è invece qui da dire che la critica musicale italiana, sia pure oggi dimostrando rinnovato interesse per certi musicisti appunto di crisi, non ha ancora individuato a mio avviso i momenti in cui il linguaggio di Zandonai riesce, e come vi riesca, ad aderire a questo arcaismo tutto di cultura, tutto di rifacimento della Francesca da Rimini; e vi aderisce senza ricorsi a riprese archeologiche di modi gregoriani o greco-latini come era stato nel caso di Ildebrando Pizzetti. Zandonai vi aderisce inventando un suo arcaismo che non contrasta con certo clima, direi adriatico, romagnolo, delle parti più robuste e più incisive del testo di Francesca da Rimini, che resta testimone dell’efficienza del lirismo nell’interpretare la natura sentimentale dei personaggi e per contro dell’indubbio talento drammatico di Zandonai, laddove la sua inventiva non cede alla retorica, alle suggestioni generiche e superficiali o, comunque, laddove non si sfibra il tessuto drammatico-musicale nel compiaciuto prolungarsi degli affetti. Così, con quest’opera, Zandonai porta a compimento, come il Puccini della Turandot, seppur in maniera diversa, il corso del melodramma tradizionale italiano, pervenuto alla massima fase di estenuazione e di corruzione, ma non ancora privato di un suo certo fascino, di quel conturbante senso di decadentismo.