Alberto Cuomo
Chi ha frequentato lo sport, in maniera attiva, sa che il suo training richiede sacrificio, passione, ragione, calcolo, misura di se stesso. Insomma, per dirla in breve, lo sport è cultura, tant’è che i greci antichi lo praticavano insieme all’esercizio della mente. Socrate, Platone, frequentavano la palestra, il gymnasium, e Aristotele escludeva le donne dalla pratica sportiva vera e propria (non dall’esercizio fisico) ritenendole prive della phrònesis, la capacità di agire distinguendo, nell’atto, il bene, verso cui condursi, dal male, una ragion pratica considerata propriamente maschile. Quanto al tifo, anche nella Grecia antica, non era esente da esagerazioni. I vincitori delle gare, dei giochi olimpici, venivano intesi portatori di un segno divino e, quindi, adorati come dei, tanto da elevare in loro onore altari nei templi, come accadde Theagenes di Taso, un campione di pugilato vincitore del Pankration (praticato anche Platone) che comprendeva diverse specialità di lotta, il cui altare, scoperto dagli archeologi, mostra che fosse venerato anche diversi secoli dopo la morte – Maradona, la mano de dios e l’effige in chiesa, non sono pertanto un fatto nuovo. Il tifo, cioè, è una sorta di malattia, analoga al mal d’amore, che prende tanto da far perdere il controllo di sé sino a divinizzare l’oggetto dell’amore. Lo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni, che ha ritenuto i cori dei tifosi salernitani contro Napoli e il Napoli “espressione di un provinciale e poco intelligente senso di incompiutezza e inferiorità”, si è probabilmente lasciato andare a sua volta al tifo sì da rendere difficile distinguere lo scrittore dal tifoso. E tale indistinzione è stata fatale anche al responsabile culturale del Festival della Letteratura di Salerno, Gennaro Carillo, che, nel rinnovare l’invito alla presenza dello scrittore, ha rischiato di scivolare con lui nel tritacarne del tifo. Per ironia della sorte, l’edizione 11 del Festival vede l’incipit del programma richiamare il calcio, gli undici uomini in campo cui corrisponderebbero le undici tornate della manifestazione, quasi ad indicarne il valore, sebbene il numero, proprio anche nel gioco della palla, non sia indice di qualità. Ed anzi, se accanto a qualche bravo fantasista metti tanti brocchi, come è accaduto al Festival, e come continua ad accadere in questa edizione, rimani una squadra provinciale cui si addice la retrocessione. E infatti, nell’edizione scorsa, solo l’adesione di Massimo Cacciari ha nobilitato le tante oscure presenze, mentre quest’anno, con l’introduzione del tema dell’economia, è certamente Alessandro Aresu, con le sue riflessioni sulle organizzazioni economiche ad offrire un po’ di smalto ad una kermesse stantia. A ciò fanno ombra i tanti dibattiti scontati, quale quello sulla città che Annalisa Metta scopre, sebbene si sappia da almeno 50 anni, essere un ibrido o quelli sul femminismo, sulla fine della sinistra, sulla morte degli intellettuali. Sarà certamente e finalmente possibile ascoltare Roberto Esposito su un tema controverso riguardante il ruolo dell’istituzione in un tempo in cui ogni istituto sembra collassare e tuttavia il tema fondante il Festival, di sicuro interesse, riguardante la mutazione dell’uomo attraverso la tecnologia, è purtroppo affidato solo a una dilettantesca mostra di design a cura della fondazione Plart di Napoli, che tende di fatto a valorizzare la collezione di plastiche della presidente. Un tema oltretutto presentato in termini ambigui, ovvero nella frase di Starnone apposta sulla locandina del Festival, “l’umanità è un tirocinio di esito incerto”, accanto all’immagine di un cyborg che la fa divenire abbastanza inquietante. In tanta confusione poteva poi mancare un premio letterario? No certo (e chi sa che ne vedremo prossimamente uno per la poesia) la cui selezione è stata affidata a illustri premi Nobel de noantri. Assodato comunque che il Festival della Letteratura di Salerno è assimilabile a un raduno stra-paesano, evidente altresì nell’alterco tra De Giovanni e i tifosi della Salernitana, non si può non annotare che l’intervento del curatore Carillo nel merito fa velo a fatti su cui dovrebbe dare spiegazioni la direttrice della manifestazione, tanto raffinata da nascondersi in ogni difficoltà dietro i curatori. Carillo sostiene che il Festival fa le sue scelte in assoluta autonomia. Come mai allora si offre oggi tanto sostegno a De Giovanni e non ci si espose ieri sul defenestramento di Saviano e Scurati dal Festival di Ravello? E chi scelse fosse presentato in pompa magna il libro del figlio di De Luca, Roberto, riguardante le sue mancate prigioni? Viene affermato poi che molti operatori, lo stesso Carillo e De Giovanni, abbiano partecipato e partecipino in regime di volontariato. E c’è sicuramente da credere. Tuttavia il Festival gode di finanziamenti, sponsor, patrocini, collaborazioni di enti economici pubblici e privati: perché in 11 anni la direttrice non ha mai avuto la sensibilità di rivelare l’entità dei finanziamenti e, trattandosi di finanziamenti pubblici, di esporre le rendicontazioni che si devono alle autorità finanziatrici e di controllo, ma anche ai cittadini. I finanziatori pubblici indicati nel programma e sui manifesti sono il Comune di Salerno, la Regione Campania e lo Scabec: a quanto ammonta la cifra finanziata? Come è stata spesa se ci sono tanti volontari? Contrariamente a quanto espone Vincenzo De Luca, che si dichiara uomo del fare, in Campania, e a Salerno, tutto langue e, particolarmente, soffre l’impianto sanitario, tanto che per una tac si attendono diversi mesi, sino a morire. Far sapere quanto denaro va al Festival della Letteratura e come viene speso, di fronte alle indigenze dei cittadini, non è cultura forse, ma è sicuramente un segno di civiltà.