Applausi per un’opera costruita in modo banale. Sugli scudi l’eccezionale Sganarello di Nando Paone che tira l’intero spettacolo
Di GEMMA CRISCUOLI
Il sano veleno di Molière? Meglio la lettura superficiale ed effettistica di un personaggio che ha più sfaccettature di quante ne sappiano leggere critici e artisti. Su questo solco si è mosso Alessandro Preziosi, protagonista e regista del “Don Giovanni” applaudito calorosamente al Teatro Verdi. Lo spettacolo rappresenta un ibrido irrisolto tra tiepido omaggio all’autore e giocoso desiderio di rielaborare situazioni e figure all’insegna della leggerezza. Se Preziosi conosce i tempi comici ed esalta con coerenza la spregiudicatezza del libertino (un momento felice è l’immedesimazione nel vecchio padre, il cui biasimo è lentamente svuotato di ogni credibilità), banalizza al tempo stesso l’opera, rendendo gli spunti polemici semplici dati accessori della dimensione erotomane. La fame di corpi è fame di conoscenza e dunque di libertà. È questo che scava distanze siderali tra Don Giovanni e la società ed è questo che non emerge nella scelta del regista, che lo tramuta in un infantile voltagabbana a senso unico. Distendersi su Donna Elvira che vuole convertirlo, imitare il pianto di un bimbo dinanzi alle critiche, la risata insensata della cameriera che dovrebbe consolarlo rientrano in questa prospettiva dal fiato corto. Nel momento in cui vuole porre in luce l’unicità del seduttore, l’interprete eccede nell’autocompiacimento e cade vittima della propria vanità. Il contesto scenico risente dell’approccio epidermico al testo. I lenti movimenti dei duelli esprimono l’ossequio alla forma, le videoproiezioni mostrano un fumo colorato per narrare dissidio e seduzione, l’unico portico che appare durante l’assedio di Donna Elvira allude alla sua ossessione senza via d’uscita. Nel prendere alla lettera suggestioni e motivi, questi espedienti hanno meno consistenza del fumo stesso. Anche la statua del Commendatore, un totem rigorosamente creato al computer, è un’ambigua trovata. Nulla è più antico della paura di morire e al tempo stesso si ha la sensazione di essere in un videogioco. Mossa finale, una statua che riproduce le fattezze del dissoluto sostituisce quella della sua vittima: l’egocentrismo produce conseguenze imbarazzanti. Ottima la prova di Nando Paone nei panni di Sganarello, un attore perfettamente consapevole delle proprie risorse, in accorto equilibrio tra ansia morale e piaggeria e capace di arricchire di nuove sfumature in ogni circostanza la sua indole sospesa tra opportunismo e pietà. I classici non sono intoccabili e niente impedisce di percorrere la via più semplice. Peccato che, soprattutto a teatro, sia di rado la migliore.