Il bel canto di Diana Damrau - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Il bel canto di Diana Damrau

Il bel canto di Diana Damrau

 

La Violetta del teatro alla Scala sarà stasera, alle ore 18,30, sul palcoscenico del massimo cittadino che segnerà l’esordio di Daniel Oren in questa nuova stagione

 

Di OLGA CHIEFFI

E’ maggio, ritorna a dirigere Daniel Oren e lo fa presentando a Salerno la voce da “Expo”sizione del soprano Diana Damrau, la quale in duo col basso Nicolas Testè e supportata dall’Orchestra Filarmonica Salernitana, sarà questa sera alle ore 18,30, sul palcoscenico del massimo cittadino. Apertura all’orchestra con l’ouverture de’ “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini che rivela nella spigliata brillantezza del linguaggio orchestrale, nella vivacità della componente ritmica e nell’attenzione alla simmetria architettonica dell’insieme, una schietta forma ternaria le cui sezioni sono delimitate da chiare transizioni e concluse da robusti crescendo, nel palese modello rossiniano. La Damrau si presenterà al pubblico salernitano con l’aria di sortita di Giulietta “Eccomi in lieta vesta”. Lo stridente contrasto tra i lieti preparativi per le nozze e la tristezza, nel sapersi vittima sacrificale di un’unione detestata si sostanzia in un recitativo suddiviso in tre sezioni e sorretto da un cangiante ordito orchestrale. Esitanti figurazioni degli archi enfatizzano innanzitutto il senso di smarrimento della giovane che, vestita da sposa nelle sue stanze, si dichiara piuttosto pronta a morire lanciandosi in impervie e volitive fioriture vocali. Nicolas Testè entrerà in scena nelle vesti di Raimondo per il duetto della Lucia di Lammermoor “Ebben? Di tua speranza…Ah, cedi, cedi….”, prima di ritornare al Bellini dei Puritani con “O rendetemi la speme… Qui la voce sua soave”, la Damrau sarà Elvira evocando il suo delirio, che attinge all’assurdità sulle ceneri di un sentimento deluso, una follia, all’inizio senza troppi straniamenti virtuosistici, affidata poi alla dolcezza, con qualche slancio epico, come per uscire dalla prostrazione. Seguirà l’ouverture della Norma, pagina che già presagisce la situazione drammatica della vestale dei Druidi, con i suoi ritmi incisivi, i suoi scorci e sussulti improvvisi, i suoi abbandoni subitamente interrotti rivelanti una tensione febbrile, l’incalzarsi ed esacerbarsi reciproco di passione e coscienza, desiderio e rinuncia, amore e avversione. Si passerà quindi a La Sonnambula con l’aria del Conte Rodolfo “Vi ravviso …Tu non sai” che rappresenta il momento della coscienza, della fine dolorosa del sogno e dell’illusione e con le due arie virtuosistiche di Amina: nessuno che non abiti gli Elisi potrebbe cantare “Ah! Non credea mirarti” e discendere in terra a mostrarci la propria solitudine desolata ed ecco la Sonnambula resuscitata cantar vittoria con “Ah non giunge uman pensiero!”. Sarà quindi, il momento di Traviata con il primo preludio, che canta appassionato il tema d’amore di Violetta, l’esistenza dissipata la ha preparata alla passione senza ritorno, alla dedizione assoluta, alto è lo spessore emotivo della “povera donna, sola, abbandonata/in questo popoloso deserto/che appellano Parigi”, che vorrebbe, in un congedo estenuato al belcantismo, “sempre libera folleggiar di gioia in gioia” e sospetta giustamente che “sarìa per me sventurata un serio amore”. Viene da pensare alla solitaria morte parigina della Callas, Violetta per sempre, al di là dell’incomparabile maestria tecnica che associava drammaticità e coloratura, per quanto di personale, di incolmabile eccesso di amore irricambiato è fluito nelle sue esecuzioni. Entra in scena Testè per evocare il racconto di Ferrando che inaugura la cospicua serie di narrazioni che costellano il Trovatore. Nicolas Testè e Diana Damrau si trasformeranno, poi nel Massimiliano e Amalia dei Masnadieri per dar vita alla scena VI con il duettino Mio Carlo! Carlo! Io muoio” . Un commosso recitativo che sfocia presto in uno squarcio patetico (Andante – Fa-re) in cui il basso rimpiange il triste destino della donna, bastano al compositore per dare un efficace ritratto di un vecchio sofferente che vive nella sola dimensione del ricordo e del rimorso. Intermezzo della Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni con i diversi movimenti dei temi contrastanti, i modi arcaici evocativi delle melodie, i temperamenti offerti dallo scivolio cromatico, i colori chiari della natura, rispecchianti quelli della fatalità amorosa e gli oscuri pugni dei bassi che muovono il sangue, una pagina, questa, che si espande rinforzando, ondeggiando, come il vento e gli stessi sentimenti umani, che fluttuano per i loro ciechi labirinti. La Damrau si cullerà, quindi, nella bella siciliana di Elena dai Vespri verdiani “Mercè dilette amiche”, prima di chiudere con la Luisa Miller con “Ah! Tutto m’ arride…Il mio sangue”, l’aria di Walter con lo scatto d’orgoglio al pensiero che il figlio gli possa disobbedire, rifiutando le nozze con Federica.  Finale  con  il duetto con Wurm e l’aria di Luisa “ Il padre tuo … Tu puniscimi”. Il tono eroico di questa pagina espone un aspetto inusitato della protagonista che, come il padre, nei momenti in cui è in pericolo l’onore è in grado di slanci eroici e, soprattutto, si appella a Dio come sommo giudice ed estremo protettore degli umili. Il cantabile termina con le parole «O Signore, non mi lasciare» ripetute più volte, quasi a suggerire lo smarrimento interiore di Luisa, e con una virtuosistica cadenza a La maggiore, che ci ricorda che Luisa è pur sempre una prima donna.