Questa sera, alle ore 21, il sipario del teatro Verdi si leverà su La Traviata, opera senza rughe, che segnerà il debutto di Gilda Fiume dopo la Norma, affiancata dal tenore Antonio Poli. La regia sarà firmata da Pier Paolo Pacini
Di Olga Chieffi
Non avrà mai cedimenti nei secoli la Traviata di Giuseppe Verdi, ed ecco ritornare sul palcoscenico del massimo cittadino, ancora una volta Violetta, che avrà la voce del soprano sarnese Gilda Fiume, che torna dopo i trionfi di Norma. Daniel Oren, scegliendo questo amatissimo titolo va sul sicuro, ponendo a fianco della Fiume, un altro giovane dai buoni numeri, Antonio Poli, nel ruolo di Alfredo, l’esperienza di Vladimir Stoyanov, in quello di Giorgio Germont, mentre a completare il quartetto di voci vi sarà Maria Luisa Lattante, che darà corpo a Flora Bervoix, con Annina che avrà la voce di Miriam Artiaco, Gastone impersonato da Francesco Pittari, il Barone Douphol Angelo Nardinocchi, il Marchese d’Obigny, Luigi Cirillo, il dottor Grenvil, Carlo Striuli. Se l’Orchestra Filarmonica Salernitana, avrà da seguire e senza distrazioni, l’ex braccio destro di Daniel Oren Francesco Ivan Ciampa, la regia sarà firmata dal raffinato Pier Paolo Pacini, che darà vita agli allestimenti di Franco Zeffirelli, pensati per Busseto e presentati al Verdi in quell’eccezionale stagione del 2008. Si riscopriranno certe bellezze della tradizione melodrammatica quali l’illusionismo naïf del fondale dipinto (il bosco del II atto), il rito dell’ovazione alla fine del I atto – per Violetta e Alfredo – e dopo il primo quadro del II – per Germont –, la seduzione visiva dei costumi storici e dei drappeggi che inquadrano e riducono lo spazio dell’illusione scenica. Spazio dominato da un cilindro centrale– vetrina per mettersi in mostra, bicchiere per futili brindisi, – che permette moti ora centripeti (il coro fa cerchio intorno a Violetta durante gli improvvisi mancamenti), ora centrifughi, comunque un dinamismo sempre funzionale all’azione, la festa carnevalesca popolata da procaci danzatrici di flamenco e baldi toreadores.“La Traviata” rappresenta il Verdi “moderno”, in primo luogo per la tempestività (la versione teatrale del romanzo di Alessandro Dumas jr., La dame aux Camélias, era andata in scena solo un anno prima), poi, per l’attualità del soggetto e della psicologia, favorita dallo spostamento della trama su di un solo personaggio. Conta, però, soprattutto l’apertura musicale, basti ricordare la costruzione di tutto il primo atto, intorno ad un unico, inarrestabile ritmo di valzer e del terzo su un sommesso parlato, la pulsione erotica mondana e la delusa intimità borghese. Echi, forse, dell’amato Schubert. Nel valzer si riflette al negativo la mondanità del Secondo Impero, una spettrale “vie parisienne”. Simmetrie. “Libiamo ne’ lieti calici” ha (in tonalità maggiore) lo stesso avvio dello sconsolato “Addio al passato”, in minore, introdotto dall’evocativo suono del clarinetto. Verdi “borghese”, organico e ribelle insieme, come ben si conviene in un’epoca in Italia ancora rivoluzionaria, in cui era tale essere anticlericale e patriottici, magari convivere con una donna senza sposarla. L’amore attraversa fremente la diseguglianza dei ranghi sociali, ma non è questione di ricchezza, ma di gap fra buona società e demi-monde, e pretende di associare stabilmente il giovane di buona famiglia e la cortigiana, che dovrebbero avere per unico legame legittimo il piacere mercenario e temporaneo. La comunicazione s’interrompe per un dislivello incolmabile di amore. L’esistenza dissipata ha preparato Violetta alla passione senza ritorno, alla dedizione assoluta, mentre Alfredo si è soltanto infatuato della brillante esperienza della cortigiana, è temporaneamente abbagliato da quel mondo, ma prontissimo a ritornare al proprio, al solido matrimonio con qualche algida e illibata fanciulla da tradire, poi, con altre più sostanziose amanti. Non ingannino i reciproci slanci amorosi del primo atto. Invero, già allora, il “croce e delizia al cor” di Alfredo è soltanto una galante serenata. Ben altro è lo spessore emotivo della “povera donna, sola, abbandonata/in questo popoloso deserto/che appellano Parigi”, che vorrebbe, in un congedo estenuato al belcantismo, “sempre libera folleggiar di gioia in gioia” e sospetta giustamente che “sarìa per me sventurata un serio amore”. Viene da pensare alla solitaria morte parigina della Callas, Violetta per sempre, al di là dell’incomparabile maestria tecnica che associava drammaticità e coloratura, per quanto di personale, di incolmabile eccesso di amore irricambiato è fluito nelle sue esecuzioni. Lo scoppio della passione compromette l’accasamento delle vergini (Germont si preoccupa di sistemare la sorellina di Alfredo e intona soave “Pura siccome un angelo”) e turba la pubblica opinione. Germont rappresenta la figura e la Legge del Padre nei confronti di una Violetta chiaramente dedita al libertinaggio per mancanza di una sana educazione paterna. Il sacrificio della passione e il saper tenere la bocca chiusa – secondo le buone tradizioni borghesi – è il contributo dell’onesta puttana all’equilibrio sociale. L’innamorato Alfredo, finge di non capire, rinfaccia alla donna che l’ha abbandonato i soldi spesi per lui, eccedendo in villania per gli stessi canoni mondani. Sul prezzo che paga si inteneriscono i carnefici, Alfredo stesso e l’odioso genitore. L’inizio dell’ultimo atto, contribuisce decisamente allo sfaldamento della struttura tradizionale a numeri chiusi, dissolti in un tessuto continuo di recitativi, slanci lirici e ricadute nel pianissimo, in piena corrispondenza alla tempesta sentimentale che investe l’affranta Violetta e alla sua illusione, proprio in punto di morte, di un ritorno delle forze vitali. Violetta morirà sull’etereo suono del violino che ricorderà ancora una volta la prima frase d’amore di Alfredo. Lo specchio presente sul palcoscenico svelerà il maligno disegno della vita.