GUERRE CANAGLIE - Le Cronache Ultimora
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GUERRE CANAGLIE

GUERRE CANAGLIE

Alberto Cuomo

Con l’avvento del nuovo millennio i grands maîtres della filosofia francese, personalità di riferimento della cultura internazionale nella seconda metà del secolo scorso, forse a causa del restringersi del mondo mediante i nuovi mezzi della comunicazione, hanno visto affievolirsi l’interesse nei confronti delle loro idee, tanto più con la morte dell’ultimo dei maggiori esponenti della “French Theory”, secondo la definizione di Francois Cusset, ovvero Jean Baudrillard, avvenuta nel 2007, dopo quella di Althusser, Foucault, Deleuze, Guattari, Derrida etc. “French Theory” in inglese perché, mentre si celebrava in Italia il suo de profundis, e basti pensare che Alfonso Berardinelli alla fine del 2011 dava a un proprio articolo su “Il Foglio” il titolo “Adieu French Theory”, negli Usa invece continuava la diffusione delle teorie dei vari suoi esponenti, individuati in termini molto generici quali “poststrutturalisti”, nell’incrocio del pensiero di Marx con quello dell’epistemologia più recente. Può dirsi però che nei nostri martoriati giorni, le loro analisi appaiono del tutto attuali. Alla fine del Novecento negli Stati Uniti fu coniata la definizione di “stati canaglia” per indicare gli stati colpevoli di violazioni del diritto internazionale. Già Noam Chomsky aveva messo in luce come gli stati che si arrogavano il potere di definire quelli inadempienti del diritto fossero a loro volta “canaglie”. In questo senso nei primi anni del Duemila Jacques Derrida affronta il tema degli “stati canaglia” mostrando l’ambiguità concettuale e linguistica della definizione: “canaglia” rinvia a ciò che si pone fuori dalla legge e questa etichetta applicata da alcuni Stati ad altri, senza che chi la pronuncia si sottoponga allo stesso giudizio, è già un atto di potere estraneo al diritto. Vale a dire che l’uso politico del concetto da parte degli Stati Uniti, che si attribuivano il diritto di definire altri come “canaglia”, si rivelava quale sospensione del diritto internazionale al fine di agire unilateralmente in nome della sicurezza, della democrazia o della lotta al terrorismo. Si deduce che lo “stato canaglia” non è semplicemente l’altro, il nemico esterno, ma una possibilità interna alla sovranità stessa. Ogni Stato sovrano, nel momento in cui decide eccezionalmente di non rispettare la legge, manifesta una dimensione “canaglia”. Riprendendo una lezione di Carl Schmitt e le proprie analisi sulla “bestialità” del sovrano, Derrida mostra come la sovranità implichi sempre il potere di sospendere la norma che fonda. Lo “stato canaglia” diventa allora auna figura che interroga la democrazia contemporanea e la sua promessa non mantenuta tanto da doversi sperare in una “democrazia a venire”, che non coincide con i regimi democratici esistenti, ma resta un ideale aperto, vulnerabile, mai pienamente realizzato sì da invitare a una vigilanza critica permanente: non contro un nemico esterno già definito, ma contro la possibilità sempre presente che il potere, anche quello che si dice democratico, diventi “canaglia”. In tale ragionamento, se il terrorismo esclude la possibilità di individuare uno stato, tanto da far decadere la definizione di “stato canaglia”, questa tuttavia si ravviva proprio per gli stati i quali, come Israele, con lo schermo della necessità di opporsi al terrore, compiono veri e propri stermini di massa infischiandosene del diritto internazionale. Sembrerebbe pertanto sia la paura agitata dagli stati sovrani (v. anche la paura dei contagi di malattie) a giustificare la sospensione del diritto, la paura il deterrente che fa accettare le costrizioni che ci infliggono e, persino, la guerra. Non a caso, un altro intellettuale francese, l’architetto-filosofo Paul Virilio, ha scritto un testo intitolato “Città panico” in cui si illustra la perdita del “luogo” nella metropoli globale, a causa dei mezzi veloci, non ultimi quelli informatici, che spostano le guerre dai fronti di un tempo in ogni dove. Sembrerebbe cioè, per Virilio, che nella nostra epoca l’ansia della velocità conduca con sè una voglia di sparizione, un cupio dissolvi, che coinvolge singoli soggetti e istituti collettivi in un comune desiderio di morte. D’altro canto Jacques Lacan, uno psicanalista francese pure esponente della French Theory, in diversi testi e particolarmente in “Le formazioni dell’inconscio”, ha spiegato che la violenza, e pertanto la stessa guerra, è una manifestazione del desiderio, tra identificazione e pulsione di morte, che abita il soggetto e il legame sociale. Secondo Lacan il soggetto umano è strutturalmente diviso e segnato da una mancanza originaria che nasce dall’ingresso nel linguaggio e nell’ordine simbolico, rendendo impossibile la coincidenza dell’individuo, perduto nelle proprie definizioni di sé, con sè stesso. Nasce in ciascuno un conflitto interiore quale dimensione costitutiva del soggetto, che tenta di identificarsi sia attraverso le immagini di sé che attraverso l’aggressività verso l’altro. In tal modo anche la guerra può essere intesa come la proiezione su scala collettiva di questa divisione interna: se ciò che il soggetto non riesce a sopportare in sé viene localizzato nel nemico, nell’altro da combattere e distruggere, analogamente, i popoli in guerra si identificano in immagini ideali – nazione, giusta causa, difesa del proprio retaggio – che ne mascherano e giustificano l’aggressività. Per Lacan anche la violenza collettiva è collegata alla pulsione di morte che origina con il nostro universo simbolico e, dal momento questo fonda la nostra vita singolare e sociale, in una parola la civiltà, la guerra non si configura nella barbarie quanto proprio nella vita civile sì che si imponga la nostra continua sorveglianza nel non cedere alla violenza.