di Marco De Martino
Una squadra di eroi. Lo era la Salernitana 89/90, quella che trent’anni fa conquistò l’agognata promozione in serie B dopo 24 anni d’inferno. Un gruppo di uomini che ha risollevato le sorti di una città intera, esplosa come una bomba H dopo la passerella contro il Taranto, terminata senza reti, in un Vestuti stracolmo ed al passo d’addio. Il numero uno era Massimo Battara, saracinesca para-rigori che è stato, molto probabilmente, il miglior portiere della storia recente granata. Fisico imponente, carisma da leader e classe di categoria superiore per il pipelet che in venti partite su trentaquattro è riuscito a mantenere inviolata la propria porta. Merito, questo, anche di una linea difensiva ermetica composta dai giovani emergenti Mario Somma e Ciro Ferrara, dall’esperto Giuseppe Di Sarno e magistralmente guidata al centro dal roccioso Carmine Della Pietra, stopper con il vizio del gol. Reti pesantissime, come quelle siglate alla Ternana e soprattutto al Casarano in trasferta. In tutto sei, un bottino che lo ha posto in seconda posizione nella classifica marcatori di squadra, a pari merito con il centravanti Lucchetti e dietro solo ad Agostino Di Bartolomei. E proprio il capitano è stata l’anima di quella squadra fantastica. Due anni, solo due, per diventare una leggenda della Salernitana. La sua loquacità fuori dal campo era inversamente proporzionale al peso specifico che aveva sul terreno di gioco. Ago è riuscito a trascinare una squadra normale verso la vittoria di un campionato storico e non solo grazie quel gol realizzato sul campo spelacchiato di Brindisi in un caldo pomeriggio di fine maggio. Nello spogliatoio, con poche parole, era capace di motivare i suoi anche nei momenti più difficili, come dopo il ko interno con il Palermo, ed a condurli all’impresa da leggenda. Il centrocampo era il fiore all’occhiello di quella Salernitana. Accanto a Di Bartolomei c’erano i muscoli di Giacinto Di Battista, il dinamismo di Giuseppe Donatelli e di Bruno Incarbona, il cuore di Marco Pecoraro e la classe di Francesco Della Monica. Un reparto che sopperiva alla scarsa incisività di un pacchetto offensivo comunque impreziosito dall’esperienza di Maurizio Lucchetti, dalla freschezza di Eupremio Carruezzo, dalla velocità di Luca Gonano e dalla potenza di Adelino Zennaro. Un mix perfetto insaporito dall’ingrediente in più, conferito dal mister Giancarlo Ansaloni. Il suo pragmatismo è stata l’arma vincente della Salernitana 89/90. Tanti pareggi e solo tre sconfitte hanno fatto la differenza in un campionato ancora contraddistinto dall’estremo equilibrio (alle spalle della Salernitana, Casertana e Giarre chiusero a -2 ed il Palermo a -3) e che assegnava ancora i due punti per la vittoria. E come non ricordare chi ha lavorato dietro le quinte, come il direttore sportivo Franco Manni ed il masseur Bruno Carmando, per contribuire in maniera decisiva alla storica promozione. E poi il vice allenatore Zeoli, il medico Corrado Liguori, il magazzieniere De Santo. Un gruppo, insomma, di ottimi professionisti e di grandi uomini, capeggiato e tirato su da un padre più che presidente, quel Peppino Soglia rimasto in maniera indelebile nella storia centenaria della Salernitana. Nessun presidente ha mostrato un attaccamento alla maglia granata come quello di don Peppino, ultimo vero salernitano a guidare il club dell’Ippocampo. Soglia è stato l’uomo che ha dato la svolta in chiave moderna alla Salernitana portandola dall’anonimato della serie C in cui era caduta da decenni ai fasti degli anni novanta, con la riconquista della B (categoria che da quel momento i granata hanno frequentato diciotto volte su trenta nonostante due fallimenti) e la costruzione del nuovo stadio, l’Arechi, altra pietra miliare della società per il suo definitivo salto di qualità verso il calcio che conta. Brutta, tignosa, scorbutica e vincente. Questa era la Salernitana 89/90, la Salernitana più amata della storia.