Gli Enti complici dei privati nel degrado della cultura - Le Cronache
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Gli Enti complici dei privati nel degrado della cultura

Gli Enti complici dei privati nel degrado della cultura

di Camillo Calvesi

 

Alberto Cuomo, nei giorni scorsi, ha riacceso un potente riflettore sull’improduttività assoluta degli investimenti culturali disposti dagli enti pubblici salernitani e campani. E ha legato, con un’articolata e incontestabile analisi, la genesi dell’infeconda vetrinetta provinciale a quel Sistema politico-affaristico che antepone la gestione elettorale del consenso a ogni finalità progettuale e, quindi, agli interessi e ai destini della comunità. Un allarme che, nei settori della cultura e degli spettacoli, avrebbe dovuto suscitare un naturale dibattito, invece ogni rilievo in tale direzione, anziché alimentare discussioni e confronti, è stato ancora una volta risucchiato da un silenzio complice e interessato.

Partiamo da un dato: gli enti non dovrebbero finanziare arbitrariamente attività private – siano esse rassegne, happening, mostre, concerti, premi, rodei pseudo poetici o letterari – senza che esse rispondano alla programmazione disposta dagli statuti o ai programmi istituzionali delle consiliature. Non è cioè ipotizzabile che, a vario titolo, vengano concessi i mezzi per allestire iniziative che, invece, dovrebbero affrontare come in ogni altro settore la prova del mercato, superare cioè con successo il rapporto tra costi e ricavi, trattandosi di intraprese utili soltanto per la tasca degli organizzatori, degli staff e di articolate strutture familiari, ben nascoste sotto la maschera di un associazionismo furfantesco. Se si prosciugasse per un solo anno il fiume di denaro pubblico proveniente dalla Regione, dai Comuni, da banche e fondazioni, è molto probabile che non resterebbe in piedi nessuna delle proposte che inondano, da giugno a ottobre, la provincia e il suo litorale. Proposte in genere goffe, sempre malinconiche, che non allargano i confini della città e della provincia e ristagnano nella palude di un territorio chiuso a ogni confronto; proposte che fanno leva sulla notorietà di qualche ospite ben pagato (un premio, che non manca mai, ne giustifica formalmente la presenza), che iscrive l’iniziativa nel novero della mondanità, divaricandola da ogni annunciata finalità culturale e progettuale.

Qual è il riscontro pubblico, in cambio di tante generose elargizioni? Nessuno, se non quello di aggregare decadenti personaggi in grado di fare massa a-critica e allargare la base di un consenso politico divenuto sempre più indispensabile al potere, mentre alle urne si reca a malapena la metà dell’elettorato e alcuni simboli vengono rifiutati, dopo trent’anni, per un naturale moto di rigetto. Ci si avvita, così, sempre di più sulla logica paradossale della procurata notte della cultura, creando momenti sospesi sul nulla, dai quali emerge, anche se si finge di non vederla, l’anima arcaica degli interessi di clan e del più spericolato lobbismo piccolo-borghese. Tra l’altro, in un sistema che nega evidenza pubblica e sindacato di merito per le proposte private finanziate, si assiste inesorabilmente all’esclusione chirurgica di espressioni qualificate dell’operatività culturale e artistica, che pure esistono e talvolta sono di notevole valore: l’obiettivo è di rimarcare, implicitamente ma con forza, il concetto che la vicinanza al potere è l’unico vero requisito per esistere. La cultura di corte non è più dietro l’angolo, ma a Salerno è diventata così lo specchio di una società annichilita che si agglutina nelle sue passioni spente.

Cosa fare, dunque? Gli enti dovrebbero lanciare un’idea progettuale e, attraverso severi bandi, sondare le disponibilità, le attitudini e le capacità per realizzarla: così si misurerebbe sia la idoneità ideativa e progettuale del settore pubblico sia la adeguatezza della risposta privata e, solo su queste basi, sarebbe ipotizzabile la elargizione di mezzi e sostegni. Purtroppo non accade, e così a Salerno si rende omaggio a Charlot, chiamando in causa finanche il Papa per rendere digeribile e spendibile una vecchia pillola umoristica, ci si azzarda in una Settimana per la letteratura che è l’usurato cliché utilizzato da 25 anni in altri contesti nazionali, con iniziative che, al contrario di quella nostrana, sono diventate punto di riferimento in Europa, incidendo profondamente nell’economia locale. Ma c’è di peggio, se si pensa ai milioni che piovono su rassegne cinematografiche incapaci di produrre nel territorio, in mezzo secolo, un solo fotogramma o su rassegne musicali, come quella di Ravello, diventate la pallida riproposizione dei vecchi festival di settant’anni fa, quando sul podio salivano i grandi direttori, Karajan in testa. Eppure girano soldi mai circolati prima, gestiti da comitati di ferrea fedeltà al satirico padroncino campano. Basta scorrere i nomi di consiglieri e consulenti o verificare i compensi di alcuni direttori artistici che sopravanzano lo stipendio di un capitano della grande industria.

Si è attivata una processualità storico-sociale tipica di un’ideologia decadente, contro la quale andrebbe attivata una procedura di svelamento, ma forse è tardi, anche a causa di una formidabile cinghia di trasmissione che lega gran parte dell’informazione al cigolante carro del vincitore. Basta seguire le iper-pubblicizzate attività del teatro pubblico (anche qui c’è qualche bel milioncino investito, anzi lanciato dalla finestra) per un’attività di ricerca inesistente e una gestione affidata a un regista dilettante e a un ex giornalista di modestissimo conio culturale, entrambi però capaci di attrarre e legare, attraverso figure opache, il claudicante primo quotidiano di informazione campana e le testate mignon di giornali nazionali un tempo leader. Pochi affidabili suonatori sul proscenio per eseguire ariette senza densità, del tutto inascoltate fuori regione e proposte a platee esigue (non più di cento persone che si spostano da una location all’altra), mentre ristagna il fermento di un’opinione pubblica compressa nel claustrofobico perimetro di strutture clientelari che ormai dovrebbero saltare.

A Salerno e in Campania riesce difficile gettare il corpo nella lotta, nonostante il centenario della nascita di Pasolini lo imponga come dovere storico.