Dalla liberazione alle prime elezioni del 1948, dai soprusi nazi-fascisti al timore della dittatura comunista, storia di una famiglia italiana, agli albori della Repubblica
Di Giorgio Benvenuto
I problemi della guerra erano diventati drammatici. Nel 1940, 1941 e 1942 l’Asse vinceva e l’esito del conflitto veniva considerato (o, forse è meglio dire, raccontato) sostanzialmente scontato. Poi, però, le cose cambiarono. Mio padre Giuseppe, ufficiale della Real Marina, da Pola doveva andare in Albania. Alla fine ci ritrovammo a Pescara e, infine, a Chieti. Noi non avevamo problemi di sopravvivenza, problemi legati al cibo. Viaggiando verso Pescara, eravamo passati da Bologna e lì ci ritrovammo al centro di un pesantissimo bombardamento. La gente dormiva in stazione. Quell’Italia dorata che avevo immaginato a Pola, a quel punto si era completamente dissolta: fu un drammatico risveglio. Anche Pescara, qualche giorno prima dell’armistizio, venne selvaggiamente bombardata. Continuavo a vivere quella realtà come fosse un gioco: ricordo che durante un bombardamento volevo seguire dalla finestra quel mortale festival pirotecnico di luci e rumori; per me quelli erano solo fuochi d’artificio. Con un paio di ceffoni mio padre mi richiamò alla durezza della quotidianità. Fuggimmo a Loreto Aprutino mentre a Pola non potevamo più tornare perché avevamo perso tutto, la casa e quel che era rimasto di essa. Non potevamo andare nemmeno a Pescara e, nel frattempo, mio padre si ritrovò con una appendicite che si trasformò in peritonite, trascorse l’8 settembre 1943 in ospedale. Ovviamente, i fascisti lo cercavano e, una volta dimesso, si nascose a Chieti nel palazzo dei miei nonni. Sotto i soffitti c’erano delle intercapedini e lui lì trovò rifugio insieme ad altri militari antifascisti intenzionati a continuare la guerra con gli alleati. Vi rimase per alcuni giorni. I fascisti vennero a cercarlo un paio di volte. Don Valentini, il vice-curato della chiesa della Santa Trinità (sarebbe diventato vescovo di Chieti diversi anni più tardi) lo aiutò: un amico, era grato ai miei nonni materni che lo avevano sostenuto nell’ingresso in seminario contribuendo a costruirgli la dote. Sistemò mio padre nella cripta del duomo di Chieti e poi, aggregandolo a uno di quei convogli umanitari che la Chiesa organizzava già a quei tempi, riuscì a fargli attraversare la linea del fronte. Per un anno non abbiamo avuto notizie di lui o, meglio, sapevamo solo che era vivo ma non sapevamo dove fosse, né tra di noi potevamo parlare di lui. Mia madre mi invitava continuamente a distrarmi, ma non era facile, perché a ricordare a tutti noi la situazione provvedevano i fascisti. Bussarono a casa nostra tre, quattro volte. In un caso erano accompagnati anche dalle ‘SS’. Me li ricordo come fosse oggi. La divisa era ornata con dei fregi che a me sembravano catene o collane. Mia madre mi diceva di non aver paura, la casa era abitata da donne e bambini, mio nonno non lo potevano portare via perché era anziano, al sicuro era anche mio zio che faceva il medico, professione fondamentale in quei tempi. Presero mia madre e mia zia e le mandarono a spalare la neve. Ho ancora impressa nella memoria l’immagine di me, ancora bambino, che mi attacco alla gonna di mia madre temendo che me la vogliano portare via per sempre. Il fascista che li accompagnava e che non aveva simpatia per mio nonno ordinò a mia madre e a mia zia di armarsi di piatti: avrebbero dovuto spalare la neve con quelli. Ma si ruppero e a quel punto le obbligarono a farlo con le mani. Quell’episodio ha segnato la mia vita per molto tempo: ho impiegato anni per elaborare un giudizio più sereno nei confronti dei tedeschi e dei fascisti. Ricordo perfettamente il giorno della liberazione. La nostra casa era all’inizio del Corso: entrarono i bersaglieri portandosi dietro la speranza della fine di un incubo. La morte, che pure era la compagna più consueta in quei giorni, alla resa dei conti non mi impressionò in maniera particolare. Su un camion che attraversava il corso posero i cadaveri di due tedeschi: giovanissimi e biondi. Quei corpi non vennero oltraggiati, vennero solo esibiti: per dimostrare che erano umani non semidei invincibili. Prima del passaggio degli italiani, sfilarono per le vie del paese i tedeschi: una processione interminabile di “vinti”; i loro atteggiamenti, la loro postura spiegava con chiarezza che la loro guerra era finita con la sconfitta e senza la gloria che forse avevano sognato. I tedeschi, che avevo visto a casa mia, erano fieri nella loro divisa inappuntabile, duri e arroganti; gli abiti di quelli che sfilavano, invece, erano stazzonati; dai volti era scomparsa l’arroganza sostituita da una fatalistica arrendevolezza, non erano più marziani. Decidemmo di raggiungere mio padre. Ma non fu un viaggio semplice e non durò poche ore o pochi giorni: mancavano mezzi di comunicazione affidabili. Fu un viaggio a tappe. La prima da Chieti a Serracapriola, poco meno di centocinquanta chilometri. Oggi si coprono rapidamente, ma in quei giorni di guerra il tempo aveva un’altra dimensione. A Serracapriola c’era mia zia Gertrude: era rimasta vedova. Il paese era piccolo: una strada dritta e alla fine due scuole elementari, una per le femmine e l’altra per i maschi. Fu mia zia ad avere l’idea: “Mettiamolo in regola con gli studi”, disse a mia madre. Io in quegli anni avevo letto molto ma non avevo seguito le lezioni in maniera sistematica. Mia zia a quel punto decise di farmi fare l’esame per essere ammesso alla quarta elementare. Il marito di mia zia era stato un medico, molto stimato in paese. Mi presentai all’esame e il maestro che mi interrogava mi pose una sola domanda: “Tu sei il nipote di Antonio Gatta?”. Ottenuta risposta positiva, mi liquidò promuovendomi. Ci rimasi male: mi ero preparato, volevo essere interrogato per dimostrare che qualcosa avevo imparato, non ero abituato a essere promosso per una semplice questione di censo. Ma l’Italia dell’epoca era anche questa e i rapporti familiari contavano. Andammo a Messina perché lì mio padre lavorava al comando del porto. Mio padre conosceva alla perfezione l’inglese, il francese, il portoghese e lo spagnolo e al Sud c’erano gli inglesi e gli americani: uno come lui era richiestissimo. Appena arrivai lì provarono a farmi studiare dai gesuiti, ma non andò bene. A quel punto i miei genitori puntarono sui salesiani e lì andò decisamente meglio. Grazie a loro mi sono appassionato allo studio. Mi dicevano continuamente: “Leggi, leggi tutto, libri, giornali”. E io leggevo. Poi, avevano inventato una specie di quiz educativi: all’inizio della settimana ci davano un tema; alla fine ci riunivano e ci ponevano delle domande. Le risposte davano diritto a dei punti che potevamo utilizzare per acquistare giochi e libri. Tutte le volte che sono tornato a Messina mi sono sempre recato da loro per ringraziarli. La stessa cosa facevo con il curato diventato poi vescovo di Chieti che aveva aiutato mio padre: ora è sepolto proprio nella stessa cripta del Duomo in cui lo nascose. A Messina ho conosciuto la durezza del dopo-guerra, la miseria: dalla finestra della mia casa ho assistito agli assalti che la gente affamata dava ai carri che trasportavano la farina; ricordo l’inseguimento dei ladri, i sacchi che si rompevano disperdendo sul terreno quasi tutto il loro prezioso contenuto. Oggettivamente sono stato fortunato: non ho mai sofferto la fame. A Chieti mancavano solo il sale e le sigarette: mio nonno ci chiedeva di raccogliere le foglie per trinciarle. Mio padre nel 1947 venne trasferito a Roma. Noi, però, non lo seguimmo perché nella capitale era serissima la carenza di alloggi, lui stesso fu sistemato in una delle abitazioni che la Marina aveva requisito per i propri ufficiali. Tornammo a Chieti. Feci gli esami di licenza elementare, ma subii una sorta di umiliazione: nel dettato sbagliai le doppie. Non venni ammesso agli orali e mi toccarono gli esami di riparazione. Le medie le ho fatte in una scuola privata. Di quei giorni ricordo il cinema: entravamo gratis, bastava dire che ero il nipote del dottor Corsi, un mio zio medico, anche lui molto stimato. Poi arrivò la campagna elettorale del 1948. C’era grande povertà: al mercato incontravi ragazze giovani, con i vestiti lunghi e i cesti sulla testa; erano belle e scalze, i piedi distrutti. Venivano a vendere quel poco che avevano, normalmente delle ricottine sistemate in foglie di fico. Cinque lire all’epoca erano una somma di un certo rilievo. Ora buttiamo via tanta roba, dopo la guerra non si sprecava niente. La spazzatura quasi non esisteva: si riutilizzavano gli abiti, le bottiglie di vetro. Il cinema era il grande divertimento collettivo e quando lo spettacolo non era fisso potevi restare in sala anche quattro, cinque ore. Il Corso era così pieno di gente che c’era il senso di marcia pure per i pedoni; le auto erano rarissime, mio zio ne aveva una proprio perché faceva il medico. A Chieti c’era un solo albergo e gli agenti di commercio periodicamente lo utilizzavano per vendere abiti, libri e altri oggetti. Non c’erano ristoranti. Era una società parsimoniosa e allo stesso tempo dignitosa. Era forte il senso delle istituzioni e il rispetto per la forma. Le elezioni del 48? Fu una campagna elettorale elettrizzante, dura. Anche un mio zio era candidato, nel Blocco Nazionale. Era forte la paura che potessero vincere i comunisti. Ne ero contagiato anche io. D’altro canto, a quei tempi il condizionamento familiare e ambientale svolgeva un ruolo decisivo: si diceva che i comunisti mangiassero i bambini e in molti finivano per crederci. La mia famiglia in larga misura ha votato Saragat, alcuni i repubblicani e, ovviamente, mio zio che era di area liberale. La gente era felice quando apprese che i comunisti avevano perso. Non c’era la televisione. La radio era poco diffusa: in casa nostra fece la sua apparizione solo nel 1950. Quando qualche tempo più tardi, alla morte di Stalin, vidi tante persone piangere, rimasi colpito. Perché? Perché un comunista a Chieti era una persona quasi dannata. Lo sport, il calcio era un grande momento di coinvolgimento, leggevo “Il Calcio illustrato”In città una volta venne in ritiro la Roma. Tutti noi ragazzi andavamo a caccia di autografi. Io riuscii a strapparlo ad Amedeo Amadei, il famoso “Fornaretto”. Non avendo altra carta a disposizione, me lo feci vergare sui ricordini della prima comunione.