Giffoni Show lancia Orsini e tradisce i suoi ragazzi - Le Cronache
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Giffoni Show lancia Orsini e tradisce i suoi ragazzi

Giffoni Show lancia Orsini e tradisce i suoi ragazzi

di Camillo Calvesi

 

Appare davvero fuori luogo la motivazione di fondo che lega le critiche rivolte al Giffoni Film Festival per l’invito rivolto al professore Orsini, una controversa figura di intellettuale anti-engagée, che dialogherà con i giovanissimi giurati e ospiti sulla realtà sulla guerra in Ucraina, inquadrata – è ovvio – dal suo discusso e contestatissimo punto di vista. Il problema, infatti, non è la “tesi” pro Russia del docente (per la quale, ovviamente, un confronto con una sensibilità culturale opposta non avrebbe fatto male all’iniziativa), ma l’ulteriore e insistito cedimento della rassegna alla cultura dell’immagine, che non conferisce alcun contributo alla crescita della cultura cinematografica (e non) dei giovani presenti, che hanno dai 3 ai 18 anni. Ma lo immaginate un bambino delle elementari ascoltare i teoremi di un professore sulla genesi di un conflitto così devastante e sulla risalita, per vie storiche e geopolitiche, alle profonde cause della tragedia? Sono percorsi impervi che presuppongono una cultura politica internazionale rilevante da parte degli ascoltatori, il che non è, e non può essere, a Giffoni.

Il vero dramma non è lo showman di turno ma la strategia attraverso la quale Giffoni, da molti decenni, collegandosi alla politica nazionale e regionale vincente, allunga e stringe le mani su cospicui fondi pubblici (con l’autofinanziamento non avrebbe retto per un solo giorno): una strategia rozza, da sempre ispirata alla più cruda logica della visibilità mediatica. Con i mega compensi destinati agli ospiti, in tanti decenni, si sarebbe potuta costruire una scuola di cinematografia affidata alla gestione di professionisti competenti. E forse, a Giffoni, sarebbe potuto nascere un autentico incubatore di professionalità e giovani talenti. Invece, la cultura della passerella (dopo la settimana del Festival il paesino ospitante torna nel suo desolante e anonimo isolamento) continua imperterrita a dettare legge e il Festival, con sempre maggiore evidenza, si ripropone come una sontuosa tavola imbandita, sotto la cui tovaglia ricamata vi sono in realtà delle precarie assi di legno, in un contesto in cui un’impresa familiare, tanto improvvisata quanto scaltra, ben radicata in paese e politicamente sostenuta, detta legge e illude, con la sottocultura della parvenza e della simulazione, una platea provinciale contrabbandata per agorà internazionale e multietnica.

Il sempiterno direttore artistico si è giustificato, a proposito di Orsini, ipotizzando una scelta operata dai ragazzi. Nulla di più incredibile. Non credo che i bambini possano appassionarsi ai talkshow che invitano personaggi eccentrici come il sociologo della Luiss, venuto recentemente alla ribalta con degli pseudo discorsi geopolitici, lontanissimi dalla sensibilità infantile. Al massimo avrebbero potuto apprezzarne la somiglianza con l’egocentrismo beota di Alfa Alfa, uno dei personaggi più famosi de “Le simpatiche canaglie”, il celebre serial statunitense che la RAI trasmetteva negli anni Settanta e che era appunto incentrato sulle avventure di un gruppo di bambini. E poi lo sanno anche le pietre che il piglio decisionista e l’autoreferenzialità di Gubitosi e del suo clan non concedono alcun margine a strategie e idee che provengano da altri, per non rischiare di perdere neppure un centimetro dello spazio di controllo.

Il danno che ne deriva alla cultura e alle casse pubbliche è rilevante: si costruisce l’ennesima casa sulla sabbia, per citare il noto passo evangelico, contribuendo a ingenerare nei giovani la convinzione che il sapere non sia logos ma pathos, non studio e raziocinio ma apparenza e improvvisazione, ad opera di un deleterio e ingannevole mito dell’immagine. I ragazzini vengono così messi in contatto con la deformata e deformante politica delle emozioni, modellata dal senso comune e piegata alla notorietà di personaggi famosi, anche se di dubbia consistenza. Una deriva malinconica e deprimente che, anziché selezionare innovative forme di comunicazioni con il mondo giovanile – un regista, un cronista o un reporter, probabilmente, avrebbero potuto confrontarsi con i ragazzi sul dramma della guerra e sull’esigenza della non violenza attraverso immagini ben più significative e potenti di quelle evocate dalla fama di certi personaggi televisivi –, aggiunge un altro tassello all’opera spregiudicata di industrializzazione della cultura di massa.

Il problema, quindi, non è ciò che dirà Orsini, ma è l’aver pensato a lui perché detentore dell’insulso crisma della notorietà popolare; il che, per spettatori così giovani, accresce i rischi e i pericoli di fraintendimenti ed equivoci. Il che dimostra, ancora una volta, come le risorse di tutti debbano essere destinate a imprese più costruttive, autorevoli e sostenibili, altrimenti i nostri numerosi organizzatori-imprenditori “culturali” di fortuna si radicheranno nel proprio ruolo di gestori del dominio simbolico delle masse, in un tutt’uno con la politica dei “nuovi” Ras. E il colpo inferto alla democrazia continuerà a essere esiziale.