Di Olga Chieffi
Una quercia, due strade, una in ombra un’altra verso l’orizzonte, un incrocio. E’ questa la copertina carica di simboli del debutto in veste di romanziere di Gian Ettore Gassani, “L’ultimo abbraccio”, in libreria per le edizioni Diarkos. All’avvocato, alla sua famiglia, Salerno è affezionata. Abbiamo toccato con mano l’emozione e l’abbraccio del pubblico che ha affollato la saletta della libreria Feltrinelli, nei confronti di Gian Ettore Gassani, che ha avuto un parterre de Roy al suo fianco, a cominciare dagli amici di sempre Enzo Todaro, Tommaso D’Angelo, Amerigo Montera e Tony Ardito, unitamente a Vittoriana Abate e al moderatore Luca Volpe. Non abbiamo inteso “predicare” i relatori, poiché fanno parte della storia della città, della vita dello stesso Gassani, della sfida che ha inteso intraprendere dando alle stampe questo romanzo. Copertina simbolica, poiché illustra con un’immagine il leitmotive della vita di Dimitri Wozniak che vive a Pozen, una cittadina dal nome immaginario sulle sponde del Dnipro e il 22 dicembre 1987 riceve una lettera dall’amata sorella Maria, che vive a Vladivostok e che non vede da trent’anni. All’interno della busta trova una piccola foto in bianco e nero che li ritrae insieme, adolescente lui e bambina lei, sorridenti, l’unica immagine della sua vita “prima”, della sua vita felice, di qui i ricordi che hanno inizio nel lontano 1940, anno della scomparsa dei genitori, del passaggio del confine per sfuggire ai nazisti, della segregazione nell’internat, l’orfanotrofio, con la sorellina, un luogo che torna prepotentemente nel suo quotidiano, insieme a una quercia magica capace di unire i destini dell’adulto Dimitri e di cinque orfanelli incontrati in quel cammino iniziatico che tutti compiamo. Sotto una quercia divisi, sotto una quercia ritrovati Dmitri, Yuri, Boris, Anastasia, Wladimir e Nico. “A vida è a arte do Encontro” scriveva il poeta Vinicius de Moraes e Gian Ettore Gassani ci ha reso partecipi del suo intimo viaggio sentimentale, artistico, tecnico, attraverso queste storie che sono state da lui stesso “pathite” nel suo studio, con la toga in dosso, hanno lasciato una traccia indelebile nella sua formazione, nella sua vita. L’impianto del libro rivela lo sforzo l’impegno, la volontà di lasciare alle spalle l’avvocatese e di usare un linguaggio adatto a tutti, trasmettendo con esso un gusto profondo, un tratto ed un punto di pensieri passati e allo stesso tempo attuali, associati a quella dimensione del viaggio, all’ incedere di cose e persone, con cui inspiegabilmente, ci si trova a condividere più di quanto tu possa immaginare, uno stato d’animo, una tensione dello spirito, prima ancora che un modo d’essere, in quell’incessante scoperta che deriva dalla scrittura stessa. Ben sette anni di “gestazione”, prima della liberatoria parola fine, quasi un romantico urklang, oggi contro questa sordida e inspiegabile guerra, fratricida, contro ogni razzismo (Dmitri fugge dalle persecuzioni naziste ha sottolineato Enzo Todaro), un appello all’accoglienza, all’inclusione, al rispetto dell’infanzia, dello studio, al sogno. Parole magnetiche quelle di Gian Ettore Gassani, che pur avendo seguito le orme del padre in un primo momento della sua carriera, ha poi dato una strambata alla sua vita, passando dal penale alla missione matrimonialista, per non essere additato come “figlio di…” Dino, il quale resta Maestro invisibile, del quale ha realizzato il sogno che suo padre immaginava per lui. Il messaggio più pregnante del volume è che la prima grande virtù dell’uomo è la verità (secondo alcuni filologi deriva dalla radice iranica ver che significa fiducia realtà). Se noi riusciamo ad agire in modo da suscitare la fiducia degli altri, e al tempo stesso ad avere fiducia negli altri, come il pescivendolo che a Napoli afferma che la vongola è verace, ovvero che rappresenta la vera e onesta vongola e lo fa dire a lei stessa, forse potremo risollevarci dalla nostra condizione che sta cedendo al Nulla. L’ invito è a rompere il guscio d’isolamento, che non è materiale ma una volontaria reclusione dell’io. La passione non è la cecità di lasciarsi prendere da un’urgenza, ma pathire, cioè vivere profondamente e dare spessore alla storia, ponendo un freno al frenetico correre, in modo da fermarci a riflettere su noi stessi, poichè l’uomo è libero e vive in quanto trascende con il proprio pensiero la stessa vita immediatamente vissuta, quando pensa la Vita.