Rino Mele
Quasi nessuno più gioca ai dadi. Ma restano una metafora di come la complessità del reale giochi con noi. I dadi sono di forma cubica, in latino “tessera”. Cosa sia un cubo lo abbiamo imparato a scuola dai nostri insegnanti di matematica (ne ebbi uno bravissimo in prima e seconda media, Arturo Capasso, indimenticabile: gli altri che, in vario modo, anche molto affettuoso, ho conosciuto li ricordo scolasticamente minacciosi e legati al principio d’autorità): il cubo è un esaedro, ha sei facce uguali, il numero doppio di spigoli. Il filosofo Giorgio Agamben, parlando dell’azzardo del caso, nel suo “Che cos’è reale?”, cita Simone Weil che in “Sur la science”, 1966, propone una visione semplice e inquietante: “Un dado, per via della sua forma, ha soltanto sei modi di cadere; vi è invece una varietà illimitata nel modo di gettarlo”. Continua Simone Weil: “In questi giochi, l’insieme delle cause ha la potenza del continuo, il che significa che le cause sono come i punti di una linea; l’insieme degli effetti si definisce invece attraverso un piccolo numero di possibilità distinte”. “Che cos’è reale?” si chiede nel titolo Agamben, parlando della scomparsa, nel marzo 1938, di quel genio che fu Majorana. La realtà è una categoria che ci tormenta con la sua eccessiva prossimità, mentre forse è solo tutto ciò che non so, ma da cui sono conosciuto, l’inconscio delle cose, l’inesprimibile: continuiamo vanamente a chiamare realtà la rappresentazione che le cose danno di sé: anche i frammenti delle visioni dei sogni che si rispecchiano nella nostra quotidianità e, anzi, ne viene interpretata. Ma la realtà profonda – sempre lontana – è quel soffrire e patire che non ha volto, anche quando siamo noi a soffrire, che non è interpretabile, né fotografabile: ad essa può credere d’avvicinarsi, a volte, il mistico, raramente il poeta e il filosofo, sempre chi sta per morire. Reale forse è solo ciò che non sappiamo e non possiamo dire se non tradendolo, perché è al di là del nostro linguaggio: la paura, l’ansia, le mille pulsioni che nascondiamo agli altri: ma la grammatica di tutto questo ci è preclusa. Reale è l’assoluto profondo, di cui conosciamo soltanto la falsa rappresentazione della superficie, mare d’immagini e suoni, e con la sua spuma crediamo di giocare ma bastano quelle trame d’aria a sommergerci. Questa realtà inconscia e profonda è unitaria, non può essere divisa, non se ne può fare commercio col nostro linguaggio. Anche i quattro crocifissori di Cristo (tanti furono i soldati che inchiodarono sulla croce Gesù, e lo indica soltanto Giovanni, nel capitolo 19 del suo Vangelo) non poterono dividere la sua tunica, la tirarono a sorte, forse la giocarono a dadi (miserunt sortes). Fu crocifisso alle 9 di mattina secondo Marco, dopo mezzogiorno seguendo Giovanni, ma alle tre (l’ora nona), per tutti, tutto era compiuto. Rileggiamo un istante di qiell’asimmetrico dialogo. Dicit ei Pilatus: Quid est veritas?. Pilato è il governatore (“praeses” dicono i Vangeli), prefetto di Giudea. “Gli dice Pilato: Che cos’è la verità?”. Nel silenzio lucente di Gesù, uscì dal pretorio di nuovo (iterum) e, mostrandosi ai Giudei, proclamò che Gesù era innocente (ego nullam invenio in eo causam). Gesù parlava in aramaico, Pilato in latino. Al di là di possibili interpreti di Stato, l’ipotesi che Gesù potesse comprendere il latino senza intermediari dà un’insopprimibile ebbrezza. Alla “veritas” del latino – ed era la verità giudiziaria che interessava Pilato – Gesù aveva opposto il termine aramaico ’emèt.