di Peppe Rinaldi
Se non ci saranno sorprese, sempre possibili, la comédie larmoyante del nostro universo progressista potrebbe volgere al termine. Un’intera vita in allarme, un’esistenza appassionata e militante nel contrasto «al fascismo», anche nelle sue «sovrastrutture moderne»; biblioteche di articoli, libri, lotte politiche, analisi pensose, ricche carriere, ansie universitarie, spesso autentiche allucinazioni: poi, quando il nazifascismo si è ripresentato per davvero, non l’ha saputo riconoscere. Una sorta di contrappasso che, iperbolicamente, farebbe cadere su queste «Armate dell’avvenire 4.0» la stessa antica (sopravvalutata) accusa cristiana agli ebrei, cioè non aver riconosciuto il messia, con le note conseguenze. Non solo non l’hanno riconosciuto per quel che era e diceva di essere, l’hanno abbracciato, hanno riempito le piazze, i social, le Tv, le università, le scuole, i luoghi di lavoro. Per fermare il genocidio, la carestia, l’apartheid – hanno detto e dicono – o altre stomachevoli bugie che riecheggiano la Norimberga che fu. Ora che finalmente l’avevano davanti hanno scoperto di appartenervi, ne sono rimasti soggiogati, la sensazione di lottare per il «riscatto degli oppressi» (monomania tipica) ha prevalso. In Germania negli anni 30 funzionò allo stesso modo: anche allora le piazze si riempivano di «bravi padri di famiglia» di «madri e carrozzine», di gente che non avrebbe torto un capello a nessuno, gente colta, meno colta, ricca, povera. Tutti avevano, intimamente e poi pubblicamente, la certezza che se il mondo girava male e c’era tanto odio e spargimento di sangue tra gli uomini, ciò fosse dovuto all’esistenza stessa degli ebrei. Anche allora ci furono ebrei «dissidenti», gli Ovadia, i Lerner, le Anna Foa di puntello. Anche allora ci furono pezzi della Chiesa sprofondati nell’infamia, esattamente come oggi abbiamo visto vescovi, cardinali, sacerdoti in jeans o con paramenti «arcobaleno» bearsi di una kefiah al collo. Forse si vergognano di Cristo, l’ebreo per eccellenza.
La figuraccia storica – visto il contesto, diremmo biblica – è palpabile, amara, irrecuperabile. Il funerale delle nostre Madonne addolorate à la Albanese, Bompiani o Schlein, è in corso, il mondo sindacale continua a ricoprirsi di scorno, i partiti di sinistra ormai vivono in un’assemblea di istituto permanente pensando che le barche a vela siano il massimo dell’altruismo, che le adunate fanatiche conferiscano l’esclusiva del dolore, esistono perfino magistrati e giuristi “per Gaza”. Interloquire, discutere è apparso vano: quello “pro-Pal” è, banalmente, un mondo razzista, rozzo, sbrigativo, fanatico, petulante, un mondo malato, il solito che riaffiora sempre e da sempre, sia che si tratti di ambiente, di guerra, di istituzioni, di etica, di diritto, di questioni di «genere» o altro. Il famoso eterno ritorno dell’uguale. Ma il «nazismo», quello vero, ripreso dalle telecamere in tutto il suo, perfino inedito, infinito male, non si pensava possibile fosse applaudito. E invece: al netto delle frange delinquenziali solite, la risposta è stata boicottaggi, università inciprignite, docenti indecenti, licenziamenti, abbandoni, censure, aggressioni verbali e fisiche, cartelli in vetrina, simboli da occultare, negozi sbarrati, alberghi selettivi, perfino partite di calcio, premi ritirati, elenchi stilati. Insomma, ci siamo capiti.
Numeri e iperboli
Venendo al cuore del discorso, a volte bisogna dare i numeri per evitare di «dare i numeri», nel senso psichiatrico dell’espressione. Partendo da una domanda semplice: se per mano di un unico nemico, in un arco temporale di 77 anni, fossero stati uccisi 32mila innocenti civili francesi (circa 415 ogni anno, 35 al mese, più di un francese ogni due giorni), la Francia come avrebbe risolto il problema? Se parlassimo di tedeschi, i morti sarebbero circa 38mila, 494 ogni anno, quasi 43 civili fatti fuori ogni 30 giorni: la Germania che avrebbe fatto? Gli Usa? Forse non avrebbero neppure consentito che si arrivasse a far fuori quasi 155mila cittadini (oltre 2mila al mese), non avrebbe atteso tempo, avrebbe sganciato qualche bomba più pesante del solito e al di là dalle ragioni che hanno determinato la catena di omicidi, che restano omicidi di innocenti massacrati a caso e per essere francesi, tedeschi, italiani o statunitensi. Una cosa è fare la guerriglia contro eserciti e milizie varie, attentare alla vita di politici, giudici, giornalisti, presidenti, dittatori; altra cosa è scannare gente a casaccio per strada, nei bar, nelle pizzerie, nelle discoteche o sugli autobus, come fanno da 77 anni i gloriosi «resistenti» arabi, i quali, a un certo punto della Storia, sono stati appellati come «palestinesi» con tronfia soddisfazione del nostro indementito Occidente.
Una macabra sequenza di lutti
Questa catena macabra di lutti è esattamente ciò che vive lo Stato di Israele dal 1948 ad oggi. Di ebrei, di israeliani non impegnati militarmente ne sono stati fatti fuori, dall’anno di nascita della nazione (1948), precisamente 4.495 (7 Ottobre compreso), che sono quasi 59 uccisi all’anno, cioè quattro al mese, più di uno ogni 10 giorni. Parliamo di morti civili in «attentati terroristici», termine utilizzato in conformità alla categorizzazione delle fonti accademiche e governative convenzionalmente riconosciute. Queste fonti definiscono come «terroristici» tutti gli “atti di violenza, spesso indiscriminati, diretti contro civili o personale militare non direttamente impegnato in operazioni di combattimento su larga scala, distinguendoli dai conflitti militari convenzionali tra stati”. Le fonti consultate sono il “Council on Foreign Relations”, l’ “American Jewish Committee”, il governo israeliano stesso, “Wikipedia”, l’Onu (ops!), il “Dipartimento della Sicurezza Interna Usa”, “B’Tselem” (ops!) e altri studi accademici facilmente reperibili in rete. Sono esclusi dalla conta i militari caduti in tutte le guerre che Israele ha dovuto fronteggiare sin dal giorno della sua nascita, le ulteriori vittime nel lungo periodo che l’ha preceduta, nonché i morti sparsi per il mondo. Per non dire della Shoah. Nella conta non compaiono i feriti e gli invalidi, altre cifre notevoli che moltiplicano i totali. La concentrazione in periodi precisi di un numero elevato di morti fa registrare dati diversi, di certo più impressionanti: stirandoli però su un calendario regolare ci si rende conto di cosa questo significhi a valle di decenni di violenza strutturale araba. Si dirà (e infatti si dice): ma pure gli israeliani hanno fatto le stesse cose, c’è stato il massacro nella moschea di Hebron (1994), c’è stato il colono tal dei tali che ha assaltato villaggi e contadini arabi, Rabin fu ucciso da un ebreo «di destra» e altre disperate rappresentazioni di un quadro che si pretende sovrapponibile all’indicibile orrore compiuto dai palestinesi, sia nella fase «laica» nel mito di Arafat, sia prima ancora e sia – soprattutto – dagli anni ‘80, con l’esplosione del fanatismo islamista di Hamas e dei Fratelli Musulmani. Cifre e stati d’animo incomparabili. Soprattutto, ragioni incomparabili. Si dirà, ancora: parliamo di numeri ininfluenti, esigui, gli israeliani la stanno facendo troppo lunga se, alla fine, in un arco temporale così ampio i morti sono quel che sono, ragionamento che è un po’ la filosofia di base dell’ universo «pro-Pal». Oggi gli israeliani non sono neppure 10 milioni in tutto, 77 anni fa erano forse un decimo, nel corso del tempo hanno registrato un incremento della popolazione grazie a poderose, necessarie, ondate migratorie, per cui la «tesi» ne uscirebbe addirittura rafforzata se si considerano i coefficienti di calcolo in rapporto al tempo individuato: subire anche un solo morto per Israele non è la stessa cosa come per altre nazioni più popolose, ecco perché gli esempi richiamati potrebbero servire per orientarsi nel gran bailamme della tragedia di Gaza: che, ricordiamolo sempre, esiste per esclusiva volontà palestinese, incoraggiata e rafforzata dall’isteria di mezzo Occidente. Per dire: 50 ostaggi nei tunnel, tra vivi e morti, sono come se ci fossero ancora 300 italiani (per noi il coefficiente di moltiplicazione è 6 su circa 60 milioni di abitanti, ogni israeliano «vale» quasi 6 italiani, 9 tedeschi, 8 francesi, etc.) nelle fogne dove i ratti nazisti hanno trascinato dal 7 ottobre 2023 innocenti cittadini ebrei, colpevoli non di occupare una terra che non interessa a nessuno, se non a Conte, Fratoianni o Bonelli, bensì perché «yahud», perché ebrei. Lo dicono e ripetono da sempre. Anche in inglese.





