Franco Alfano, il "pugno" della cultura - Le Cronache
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Franco Alfano, il “pugno” della cultura

Franco Alfano, il “pugno” della cultura

di Matteo Gallo

Padre socialista di nome Eduardo e «sotto casa», nella zona orientale di Salerno, a Torrione,  la sezione ‘Palmiro Togliatti’ del partito comunista. Più che una coincidenza una ‘svolta’ del destino: molti anni dopo siederà infatti a Palazzo Guerra tra i banchi di una giunta con alla guida il partito craxiano che, proprio in accordo con la compagine di Berlinguer, metterà insieme anche i repubblicani e qualche cespuglio dall’anima verde e civica, insomma quasi tutto l’arco costituzionale tranne il Movimento sociale e fatta eccezione, e clamore e rumore, per la Democrazia cristiana che indosserà i panni inusuali dell’opposizione, dopo essere stata a capo del governo dell’urbe per sette lunghi lustri. Franco Alfano, architetto classe 1953, è per intero un uomo di cultura di sinistra. E viceversa. La sua passione per la politica è autentica e vive di ribollimenti di sangue  ancora oggi, nell’età adulta pienamente consolidata, tra il palco e la realtà del Piccolo Teatro Porta Catena, nel centro storico di Salerno, affidato alle cure sapienti di un’associazione della quale è lui il timoniere. Studi liceali al Severi insieme al vicegovernatore della Campania Fulvio Bonavitacola e percorso universitario all’ombra del Vesuvio in compagnia dell’attuale sindaco Vincenzo Napoli.  Sensibile all’arte e alle linee urbane non in disordine sparso, bensì regolamentate dall’armonia di una certa estetica dialogante con l’esistente, il professionista salernitano vanta una formazione ideologica di sinistra mai del tutto ripiegata su stessa, che spazia con consapevole disinvoltura da Gramsci a Andy Warhol. E mostra all’apparenza un certo temperamento ruvido che però diventa altro, non tiepidamente morbido ma accogliente con calore umano, non appena si rompono i cubetti di ghiaccio del primo incontro. Fondatore e primo presidente dell’associazione culturale Mumble Rumble, è stato responsabile provinciale, segretario regionale e membro della direzione nazionale dell’Arci. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta ha guidato gli assessorati alla Cultura e ai Servizi Sociali con Vincenzo Giordano, sindaco galantuomo del Garofano.
Architetto Alfano, quando e come nasce dentro di lei quella passione politica destinata col tempo a influenzare, per intero,  la sua vita?
«Nasce nell’atmosfera familiare grazie a mio padre Eduardo, socialista, che è anche stato consigliere comunale di Salerno. E nasce naturalmente, come un po’ per tutte le persone della mia generazione, negli anni della scuola, durante gli studi al  liceo Severi.  Dal 1968 in poi -avevo appena quindici anni- ho vissuto con passione e tensione ideali tutte le vicende che hanno coinvolto gli studenti: assemblee, mobilitazioni di piazza, forme di protesta e disobbedienza democratica dalla partecipazione larga e appassionata. Già allora avevo una idea politica ben precisa, di sinistra, di vicinanza al partito comunista italiano e, in particolare, anche a  quanto si agitava alla sua sinistra».
Confronti ideali e scontri di terra: non era proprio una passeggiata l’impegno politico in quegli anni…
«Era una stagione di forti tensioni. Per noi ragazzi di sinistra il vero spartiacque fu la strage di piazza Fontana del 1969 perché immediatamente dopo quel drammatico avvenimento la militanza politica divenne più ‘marcata’. Quando attaccavamo i manifesti politici ed elettorali vivevamo con terrore l’idea di incursioni violente da parte di chi militava su altri fronti e soprattutto la possibilità di nuove stragi dopo quella avvenuta  a Milano. Vivevamo lo Stato non proprio come un amico, anzi lo percepivamo contro. Esisteva in quegli anni una necessità di difendersi nella battaglia politica, anche sul piano fisico, con la quale si conviveva».
Quali i riferimenti principali nella sua formazione di sinistra?
«Nella mia formazione, oltre ai riferimenti politici, ce ne sono di decisivi sul piano culturale che vanno ben oltre l’ideologia di partito. Ho sempre cercato, come via personale, esperienze e tracce significative nella storia dell’arte. Allo stesso tempo ho  provato a costruire laboratori di iniziative culturali e sociali che fossero anche fattore aggregativo per i più giovani. Avvertivo, all’interno degli ambienti strettamente politici e di partito ai quali ero vicino, una certa rigidità e chiusura mentali. Per questa ragione i miei riferimenti formativi hanno un respiro ampio e vanno da Gramsci a Warhol».
 È sempre stato di sinistra?
«Prima dell’età liceale frequentavo l’associazione cattolica, in particolare la parrocchia di Santa Croce, a Torrione, allora affidata al sacerdote don Giovanni Pirone, di cui conservo un prezioso ricordo».
Perché il passaggio al Partito comunista?
«Succede tutto durante un normalissimo pomeriggio. Ero come al solito davanti alla parrocchia di Santa Croce, nel mio quartiere, insieme ad altri ragazzi, con i quali trascorrevamo ore di spensierata e semplice compagnia. Ad un certo punto si avvicinarono dei ragazzi per distribuire volantini contro i bombardamenti in Vietnam. Ne presi immediatamente uno.  Qualcuno dell’associazione cattolica, poco dopo, mi disse di strapparlo. La cosa ebbe per me un suono sgradevole e mi apparve ingiusta. Mi lasciò un segno destinato poi a diventare riflessione personale ed elaborazione in un certo senso politica. Come sempre accade nella vita, la molla delle decisioni talvolta più importanti scatta da episodi che possono sembrare banali, ma che tali non sono».
E così fece il primo passo deciso a sinistra.
«Cominciai a frequentare la sezione ‘Palmiro Togliatti’ del partito comunista a Torrione, che si trovava proprio ai piedi del palazzo dove abitavo con la mia famiglia. Successivamente presi a vivere con impegno e militanza la sezione ‘Angelo Petillo’ di Pastena, intitolata alla memoria del suo storico segretario. Nel mezzo di quel periodo ho militato anche nella sinistra extraparlamentare del gruppo del Manifesto, caratterizzata da un approccio più ideologico. Poi, a diciannove anni, sottoscrissi la mia prima tessera del partito comunista. Era il 1972».
Perché lasciò il gruppo del Manifesto?
«Alle elezioni politiche del 1970 furono dispersi un milione di voti tra il gruppo del Manifesto e il Psiulp. Presi quella decisione per rafforzare il peso elettorale della sinistra. Fu una scelta d’amore per il bene della sinistra».
La sua prima esperienza elettorale.
«Nel 1980. Mi candidai al consiglio comunale di Salerno nella lista del partito comunista risultando tra i primi non eletti. Cinque anni dopo ci riprovai con esito differente: presi 1200 voti entrando nell’assise di Palazzo Guerra come consigliere comunale del Partito comunista. Il mio primo sindaco è stato il democristiano Michele Scozia. Poi ho lavorato con il socialista Vincenzo Giordano con il quale sono stato assessore».
Nel 1987 la ‘seconda svolta’ di Salerno: una giunta laica e di sinistra con la Democrazia cristiana all’opposizione dopo trentacinque anni.  
«Una esperienza di governo che motivava molto. Detto questo, esisteva qualche diffidenza di carattere politico tra il partito comunista e il partito socialista. Era più che altro uno stato d’animo nemmeno individualizzabile fisicamente in determinati gruppi di persone. C’erano stati dei contrasti nazionali sulla cosiddetta “scala mobile” e dopo l’intervista di Berlinguer al quotidiano ‘La Repubblica’ sulla “questione morale”.  Fatti che esulavano da Salerno ma che naturalmente non potevano non avere riverberi a livello locale.  Siamo nel pieno degli anni ‘80, della ‘Milano da bere’ e della spregiudicatezza degli emergenti. C’erano in quella stagione  anche elementi di punta con una cultura politica più alternativa.  Noi del Partito comunista avevamo una struttura più ideologica e facevamo una semplificazione  del quadro attribuendo molte delle colpe di quella situazione al partito socialista, colpevole -secondo noi- di adoperarsi troppo acriticamente in nome del consenso. Di sicuro attribuimmo più colpe del dovuto ai socialisti perché la politica tutta, nel suo insieme,  stava cambiando. Da parte nostra, senza dubbio, c’erano troppe remore ideologiche… non da parte di tutti ovviamente, ma di questo me ne sono reso conto soltanto dopo. La contraddizione culturale all’interno della stessa ‘famiglia’ era in ogni caso evidente e destinata a esplodere… cosa che accadrà anche quando il partito socialista non ci sarà più».
Quale, allora, il rapporto con i socialisti?
«Da una parte fraterno perché abbiamo vissuto insieme esperienze appassionate, ideali e di militanza, a partire dai collettivi studenteschi. Personalmente, negli anni dell’Università a Napoli, ricordo di aver condiviso quelle esperienze  anche con l’attuale sindaco di Salerno Vincenzo Napoli. Ma, allo stesso tempo, nel rapporto con i socialisti vivevamo anche tutte quelle conflittualità proprie del momento storico».
Nella prima giunta Giordano lei sarà assessore alla Cultura, Sport e Spettacoli.
«Fu un momento coinvolgente per tutti. L’amministrazione comunale era aperta alla città e ai cittadini, con i quali si discuteva delle piccole come delle grandi questioni, finanche delle scelte di indirizzo strategico in materia di urbanistica. La nostra idea era quella di avere una città più regolamentata in questo settore e ci adoperammo in tal senso. Volevamo pedonalizzare il Corso e ci impegnammo a raggiungere l’obiettivo. Naturalmente non fu per nulla facile perché i commercianti, ritenendo la soluzione penalizzante rispetto ai propri affari, si schierarono su posizioni fortemente contrarie. Quella esperienza di governo cittadino rappresentò senza dubbio un  momento rilevante, di svolta e discontinuità sul piano politico, rispetto al passato. Salerno, infatti, veniva da una stagione lunghissima di governi a guida democristiana e si trovava in uno “stato di salute” non buono».
La trasformazione urbanistica di Salerno, secondo alcuni studiosi della politica, nasce proprio con la giunta Giordano.
«Eravamo sicuramente un laboratorio politico caratterizzato da molte idee e da un grande confronto tra i tecnici. Ma, al netto di questo, esisteva un anello mancante: il rapporto diretto con i quartieri e la popolazione. Sarà Vincenzo De Luca a coprire questa mancanza decisiva costruendo un filo diretto tra le istanze che provenivano dal territorio e i progetti ad esso destinati. La giunta Giordano ha aperto una nuova prospettiva, realizzando anche delle opere. Sono stati però i sindacati di De Luca a realizzare concretamente quella poderosa trasformazione urbana della città che oggi è sotto gli occhi di tutti. Le idee, come diceva Gaber, sono astrazione. E in politica, specie quando sei un amministratore pubblico, conta quello che realizzi. Un amministratore non è un convegnista».
Nel 1991 lei fu chiamato alla guida dell’assessorato ai Servizi sociali. Quella esperienza di governo  si interruppe  complessivamente, e bruscamente, per la Tangentopoli salernitana che portò all’arresto del sindaco Giordano e di alcuni uomini di punta dell’amministrazione, tutti assolti molti anni dopo.
«Salerno non aveva in quel momento una amministrazione comunale calata in un rapporto perverso con le imprese. Certamente qualche nota clientelare esisteva ma quei provvedimenti di carcerazione preventiva,  presi sull’onda nazionale delle inchieste, della pressione degli organi di informazione e sulla base del clima feroce che si respirava nel paese, furono senza dubbio eccessivi».
In generale, all’interno del Partito comunista, come avete  vissuto nella immediatezza del momento le inchieste giudiziarie del 1992?
«Ci fu anche tra di noi, come riflesso di un’onda nazionale, il pensiero che alcuni aspetti della gestione politica si stavano caratterizzando per una marcata spregiudicatezza. La politica si stava avvicinando troppo al mondo degli affari e questo avvicinamento non lo consideravamo un bene, al netto delle eventuali o meno implicazioni di carattere penale. Naturalmente c’era anche chi vedeva in questo rapporto di prossimità con il mondo degli affari  un elemento positivo, un motore per il ‘sistema paese’.  Senza dubbio esisteva una politica che voleva ‘emanciparsi’ con un atteggiamento più pragmatico, con il primato del fare. Ma, ripeto,  dall’altra parte c’era chi percepiva e viveva questo aspetto come una pericolosa deriva da arginare. Naturalmente,  trattandosi di inchieste giudiziarie, va sempre doverosamente separata la responsabilità politica da quella penale di carattere personale».
Da allora la politica italiana cambierà profondamente. Soprattutto i partiti politici diventeranno altro imboccando una strada senza ritorno.
«I partiti sono diventati altro così come la politica è diventata altro. Si potrebbe dire che da quel momento, e in maniera graduale ma inesorabile, la politica, più che i partiti, è diventata un impedimento al corretto funzionamento della democrazia. La democrazia, però, era e resta figlia della politica».
Dai partiti forti all’uomo solo al comando.
«La sfiducia nei partiti portò i cittadini a cercare la fiducia nel singolo, anche con un eccesso di delega. Il pensiero nemmeno poi tanto sottotraccia fu questo: la politica può fare a meno dei partiti».
Un pensiero sbagliato?
«Assolutamente sì. Avere alla guida una persona forte può costituire un fattore trainante per l’azione dell’amministrazione pubblica. In generale, però, in politica c’è bisogno di corpi intermedi, di luoghi nei quale ospitare strutturalmente il confronto, formare e selezione la classe dirigente».
Le elezioni del 1993 coincidono con la ‘stagione dei sindaci’, che nella città di Salerno segnerà l’inizio della parabola amministrativa e politica dell’attuale presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca.  
«In quel momento si provò a tenere insieme dei valori, positivi e di legalità, attorno a singole figure politiche. Va detto che di figure politiche che ressero adeguatamente a questo delicato, importante e prezioso compito ce ne furono diverse; e non solo a Salerno».
I compagni di viaggio, nell’esperienza della politica, ai quali è più legato.
«Fulvio Bonavitacola, attuale vicepresidente della Regione Campania, con il quale ho condiviso una militanza ideale e reale  a partire dagli anni della scuola, al liceo Severi. Giuseppe Beluto e Peppino Cacciatore, con i quali ho condiviso una straordinaria ed esaltante esperienza politica e amministrativa al Comune di Salerno».
I suoi principali avversari di quel tempo?
«Avevo le mie preclusioni ideologiche. Non mi sono mai comportato in maniera scorretta ma non ho mai avuto  particolari simpatie per tutti gli avversari politici».
Lei era e resta un uomo di sinistra. Ma esiste ancora la sinistra in Italia?
«La sinistra esiste perché esiste nel mondo, nella società, nella vita di tutti noi un perenne bisogno di sinistra. Di un’etica del fare e del sentire con cui ‘abitare’ la propria esistenza mettendola in relazione alle cose e agli altri. Questo essere di sinistra riguarda il lavoro e la sua relazione con la società; l’uomo e il modo in cui, ad esempio, deve abitare un determinato luogo. Questo bisogno di sinistra significa agire con il cuore ma anche con  mani operose nei confronti di chi vive esistenze difficili. Essere di sinistra vol dire avere una idea precisa di come affrontare e trattare le differenze sociali: senza retorica, senza aspetti caritatevoli di facciata che alleviano esclusivamente il peso della propria coscienza e nulla più. La sinistra era e resta una precisa scelta di campo nella vita, pubblica e privata. E’ un impegno concreto  a favore delle donne e degli uomini per costruire comunità solidali».
Un partito di sinistra, oggi?
«Il partito democratico è un partito di sinistra. Ma serve più coraggio nelle scelte e nella definizione del campo di azione. Deve dare una visione chiara di sé, a sinistra e di sinistra, per rappresentare quella parte di società che non si sente più rappresentata e che, in questa penombra, vive senza riuscire ad emergere».
Quale il compito, inderogabile e improrogabile , «a sinistra» della politica italiana?
«Bisogna mettere insieme le varie anime della sinistra e di un’area più moderata attraverso l’adesione a una carta dei valori ben definita. Questo deve avvenire sulla base della comune esigenza di costruire un futuro migliore per la nostra nazione e per le generazioni che verranno. Ci vuole una composizione del quadro, a sinistra e della sinistra, non strettamente ideologica. Occorre soprattutto rifuggire da quelle mere aggregazioni elettorali che durano il tempo di apertura e chiusura delle urne; forse qualcosa in più ma che non hanno nulla realmente in comune se non il bisogno contingente di fare voti».
“La sinistra ha smesso di essere sinistra  quando ha scelto di occuparsi dei diritti civili al posto di quelli sociali”.  E’ d’accordo con chi lo sostiene?  
«Assolutamente no. I diritti civili sono fondamentali per la vita delle donne e degli uomini. La sinistra se ne deve occupare con  rigore, scrupolo, impegno, dedizione, attenzione e passione. Aggiungo inoltre che non sempre la sinistra, in questi anni, si è occupata dei diritti civili con la giusta convinzione».
La sinistra ha perso il contatto col territorio e con la sua base naturale elettorale?
«Prima esistevano luoghi fisici ben precisi  per presidiare il territorio. Penso alle sezioni e ai circoli territoriali che animavano la vita di partito nei quartieri. Penso anche alle fabbriche relativamente al mondo del lavoro. Oggi risulta difficile anche individuare i luoghi reali da presidiare; in molti quartieri non ci arrivi proprio fisicamente. La politica, però, ha il dovere di arrivare a tutti».
La strada della comunicazione…
«Per prima cosa è necessaria avere una idea da comunicare, poi si può pensare a come farlo, con quali strumenti e messaggi. Oggi, invece, si preferisce puntare quasi tutto su una comunicazione aggressiva, strillata, ben confezionata ma vuota, nel tentativo di nascondere proprio l’assenza di idee».
La prima necessaria battaglia di sinistra.
«Sul lavoro e sulla sua emancipazione. Adesso, molto più di prima, si lavora in condizioni strutturali di precariato. I nostri giovani “emigrano” anche per trovare una occupazione capace di dare loro un minimo di gratificazione rispetto ai percorsi di studio sviluppati e alle esperienze lavorative già maturate sul campo. Questa esigenza  non implica soltanto ragioni di tipo strettamente retributivo, che naturalmente in troppi casi non sono adeguate e mortificano chi opera professionalmente. Non si può cioè pensare di approcciare ad una gigantesca problematica esclusivamente con la difesa del lavoro. Il compito di un partito di sinistra è anche quello di progettare il lavoro».
Il suo rapporto attuale con la politica?
«Resto un militante della cultura e della politica. L’impegno del Piccolo Teatro Porta Catena lo vivo  professionalmente sul piano lavorativo e culturale, personale. E’ un terreno di impegno concreto anche nella dimensione politica perché esiste una deriva culturale  alla quale dobbiamo far fronte con una nuova idea culturale di sinistra: moderna, certo, ma anche chiara e decisa perché oggi i suoi contorni sono  molto sfumati. Sono particolarmente soddisfatto, rispetto a questo mio impegno, per l’inserimento di una nostra produzione nel cartellone del ‘Teatro Campania Festival’. Si chiama “Binariomorto”, è stata scritta da Lello Guida e andrà in scena al Teatro Porta Catena il 18 e 19 giugno»
L’impegno personale di cui va più fiero?
«Quello profuso per le attività culturali: mi hanno dato le soddisfazioni maggiori».
E un rimpianto?
«Non essere stato sempre seguito, sul terreno della cultura, anche da alcuni settori della sinistra».