Questa sera, alle ore 21, il sipario del Teatro Verdi si leverà sulla più amata delle opere di Georges Bizet
Di OLGA CHIEFFI
Sarà sensuale e demoniaca la Carmen che stasera sul palcoscenico del teatro Verdi, alle ore 21, rivivrà, sul palcoscenico del massimo salernitano. Che sia vestita incredibilmente di bianco, come apparirà in questo allestimento, quale eroina immacolata e invitta, o arrotoli un sigaro sulla coscia, impregnandolo di afrori animaleschi, noi scopriremo le radici di un conflitto di fondo tra la vita comune e una concezione di libertà e morte fuori d’ogni regola, mediante un percorso di elegante leggerezza che farebbe a pugni coll’esito tragico solo che non fosse protetto proprio dall’alternarsi tra zone di musica e di parlato, ossia, dal sovrano distacco tra l’infiammabile materia musicale e la sua decantazione, o “oggettivazzione” nel parlato. Daniel Oren che sarà alla guida della sua Filarmonica Salernitana, ha optato per la partitura originale, si capirà così come questa Carmen contenga nelle sue viscere il segreto di una fascinazione sghemba e di una carica eversiva non facilmente assimilabili: i parlati raffrenano la visceralità della musica, ma fanno anche sì che l’opera cadenzi il suo ritmo di libertà e morte, procedendo a passo di musical. Daniel Oren ha parlato di Verismo. Ma possiamo citare questa corrente e un diritto di primogenitura in quel repertorio solo nella revisione con recitativi musicati. Il celebre saggista Carl Dalhaus ha ammesso che la tesi è meno infondata di quanto i puristi vogliano ammettere, il problema è, però di vedere quale sia l’elemento che permette a quel progetto di naturalismo di non decadere in tranche de vie, come avverrà nei veristi e di mantenere all’opera la sua identità di stile. Dalhaus lo ha individuato nel concetto di distacco. La Carmen anticipa il musical con le sue marce militari parodiate, le sfilate delle sigaraie e dei contrabbandieri, zingare trasformate in soubrettes, ma è solo un canone di lontananza o verità di secondo grado. E non è certo per ragioni di feticismo che Oren ha rivendicato la struttura originaria, piuttosto che quella, che una montagna di cattive abitudini teatrali le ha riversato addosso, il pur buon lavoro di Guiraud. Nel caos sonoro del Preludio, tra habanere e seguidille, che sono diventate le immagini universali di una Spagna, schizzate da un francese, in vortici di danza quale sfinitezza, spossatezza mortale, il demonio Bizet, va fino in fondo, riuscendo a fissare i lineamenti sfuggenti di una parabola interiore, una personale versione di Quéte, che il regista Renzo Giacchieri cercherà stasera di comunicarci con convinzione che, attraverso l’inesauribilità del desiderio, la sfrenatezza, la libertà incondizionata, sfocia in un’irrinunciabile esigenza di autoannientamento, di cui Josè non è che lo strumento passivo.