Successo indiscusso per il basso-bariton uruguagio, che ha oscurato completamente il pur bravo Markus Werba, non in serata. Regge bene l’allestimento di Vittorio Sgarbi ambientato tra il bosco fantastico di Bomarzo e la reggia di Sassuolo. Deludenti le voci femminili e il direttore Gianluca Martinenghi. Si replica fino a domenica
Di OLGA CHIEFFI
Teatro Verdi quasi al completo mercoledì sera per la prima del Don Giovanni, con un pubblico in predominanza femminile, grazie alla presenza di Vittorio Sgarbi, che si è ritrovato in un vero e proprio gineceo, al suo apparire in sala, con presenze anche sopra le righe, quali una signora in tenuta da mare, in panama che non ha tolto per tutto lo spettacolo. Sul podio, Gianluca Martinenghi, alla testa dell’Orchestra Filarmonica Salernitana, in palcoscenico una coppia d’eccezione Markus Werba nei panni del dissoluto, Erwin Schrott in quello del servo buffo Leporello. Vittorio Sgarbi ha indovinato la regia ambientando tutti gli esterni nel bosco sacro, iniziatico di Bomarzo, con il suo assunto “Non c’è vita senza morte e dunque per nascere ‘nuovi’ bisogna morire a se stessi”, con i suoi mostri, i suoi miti, Proserpina, il grande teatro, la casa pendente, l’orco, la e gli interni nella Palazzo ducale di Sassuolo, naturalmente attraverso sapiente scelta e proiezione di immagini, con qualche elemento architettonico in palcoscenico, un piano rialzato, il tavolo della cena di Don Giovanni e il piedistallo della statua del Commendatore. Unico neo della proiezione è a chiusura del sipario , quando lo spettacolo si riduce a dimensione di concerto e le immagini vengono proiettate direttamente sui protagonisti che diventano le pietre dei mostri abitanti il bosco di Bomarzo. Sgarbi ha centrato anche la grandezza del Don Giovanni che sta nella miracolosa coesistenza di comico e tragico. Lasciatevi sfuggire la misura sovrumana del dramma e non avrete capito nulla, ma lasciatevi sfuggire la comicità della natura formale e non avrete capito nulla ugualmente. Guai a privilegiare una sola delle due facce. La “corsa” di Don Giovanni verso la sua rovina comincia, si sa con lo stacco del “Molto allegro” dell’ ouverture e finisce solo con l’apparizione del Commendatore al banchetto, stacco quello dell’ouverture che il direttore Gianluca Martinenghi, ci ha negato. La lentezza, le continue ombre, la “melanconicità” del direttore descritta dal regista, si credeva “scherzosamente”, in conferenza stampa l’abbiamo putroppo toccata con mano, ed è figlia di un romanticume estraneo alla mentalità del genio di Salisburgo: Don Giovanni incappa nel castigo e nella morte come una bestia presa al laccio, fino all’ultimo sente odor di femmina, come un veloce pointer, che punta, ferma e piano piano si avvicina alla preda, ed è lì che mangia e beve come un leone e inneggia gagliardamente: “Viva le femmine, viva il buon vino, sostegno e gloria d’umanità!”. L’ateo fulminato resta sempre lui; proprio per questo finisce per apparire positivo nonostante i suoi misfatti, e la giustizia celeste ci offende come un’ingiustizia. Martinenghi ha tradito in pieno l’idea registica, niente traccia di quella pulita galanteria settecentesca anche perché non sostenuto dalle voci femminili, veramente mal assortite, una Zerlinetta giovinetta con i riflessi bronzei del timbro di Francesca Franci, legnosa nel registro acuto, una Donna Elvira che pur possiede qualche numero, Daphne Tian Hui, completamente assente in scena, infinitamente preoccupata dell’esecuzione, ancora legata alla lettura e alla tecnica, protagonista anche di un vuoto nella dodicesima scena, e non ultima Donna Anna, una Elena Rossi spigolosa, priva di morbidezze e imprecisa nelle agilità. L’orchestra Filarmonica salernitana non è sembrata a proprio agio nello spartito mozartiano, in particolare la sezione dei violini, né tuoni e impeti della passione, non si è sentito il ribollente tripudio orchestrale nell’aria del Catalogo, il gioco preciso e rintrecciato dei celli in “Batti, batti, bel Masetto”, in cui ha partecipato freddamente anche il coro guidato per la prima volta da Tiziana Carlini, che attendiamo a cimenti di maggior rilievo nelle successive opere, un’ouverture da dimenticare. Le voci maschili sono state, invece, distribuite con maggiore proprietà: su tutti e tutto Erwin Schrott, una voce siderale che ha incantato tutti, per volume, controllo, freschezza, forse troppo comico, per un personaggio che è un servo buffo, ma non un buffone, Markus Werba, probabilmente non in serata, pur avendo offerto un’ottima prova, in un ruolo di cui è uno dei massimi specialisti e glielo riconosciamo, è stato di continuo sovrastato dal volume di voce del suo servo e dall’orchestra, è stato comunque, un protagonista bello, disinvolto, specialmente quando la magnifica coppia è scesa in platea ad insidiar donzelle d’ogni età, misurato, senz’ombra di difficoltà vocali, un vero e proprio centro geometrico intorno a cui ruotano tutti gli altri. Dignitoso Romano Dal Zovo nel ruolo del Commendatore, di una immobilità strabiliante sul piedistallo, corretto il Masetto di Emanuele Cordaro, così come Giulio Pelligra ha difeso, nelle sue possibilità, la figura delusiva del Conte Ottavio. Applausi tiepidi del pubblico del taetro Verdi, in tripudio unicamente per Erwin Schrott il magnifico.