di Michelangelo Russo
La condanna di ieri del giovanissimo sergente russo Vadim Shishimarin all’ergastolo per un crimine di guerra non fa onore alla giustizia ucraina, né porta acqua alla sua causa. E’ una sentenza inconcepibile per la mentalità italiana, e credo per buona parte delle giurisdizioni europee. Il tempo di guerra giustifica il coprifuoco, le aggravanti ai delitti comuni, le limitazioni di libertà. Ma nessun codice di un paese civile fa strazio delle regole elementari del processo per omicidio volontario. In tempo di pace o di guerra, i nostri codici prevedono precise aggravanti che portano all’ergastolo: la crudeltà, la premeditazione, i futili motivi. Ma sono previste anche le attenuanti: la giovane età del colpevole, il suo possibile errore di fatto sulla presenza di cause di giustificazione, le stesse attenuanti generiche, innegabili in un teatro di guerra. Apprendiamo, dalle prime notizie, che il tetro Tribunale di Kiev avrebbe riconosciuto, nell’azione di questo soldato ragazzino, la presenza aggravante della premeditazione. Al giurista italiano viene spontanea una domanda, allora: in uno scenario di combattimento in atto, e nello stato di alterazione psicologica per il terrore della cattura incombente, è configurabile l’aggravante della premeditazione dell’omicidio di un civile, visto comunque da un ragazzotto come un potenziale pericolo per la sua vita? Qualsiasi giuria italiana di Corte d’Assise, per quanto odioso fosse il crimine commesso, avrebbe bilanciato i pesi contrapposti di aggravanti e attenuanti, rilasciando una sentenza di gran lunga più mite. E non sono nemmeno convinto che la sentenza sarebbe stata di omicidio volontario. Molto più facile pensare ad una sentenza di colpevolezza non per dolo puro, ma per colpa effetto di errore colposo sulla presenza di cause di giustificazione. L’errore psicologico, dovuto alla tensione insopportabile dello scenario di guerra in atto, in quel momento e in quel posto. Insomma, una condanna per omicidio aggravato in queste condizioni richiede riflessioni, memorie, perizie, prove testimoniali, che richiedono tempo per una corretta assunzione agli atti processuali. Non è concepibile un ergastolo con un processo di pochi giorni. Non è un processo. E’ una vendetta! E’ un po’ il monito mandato a Putin e agli oligarchi su ciò che li aspetta a guerra finita. O meglio, è ciò che l’Ucraina da tempo chiede all’Occidente di fare appena possibile, tramite i tribunali internazionali. Per fortuna di tutti, e della civiltà democratica dell’Europa (e non solo) i crimini di guerra, e i crimini dei tiranni, ricevono un trattamento processuale affatto sommario ed esemplare, come è avvenuto per questa parodia di Corte d’Assise che Kiev ha inscenato a beneficio del morale delle sue truppe e del suo popolo (comunque stremato dall’assurda guerra di Mosca). L’ergastolo al sergente ragazzino ha un’altra spiegazione. E’ un monito ai combattenti russi ad osservare le regole del gioco sul campo di battaglia, altrimenti per loro ci sarà l’ergastolo senza sconti. Può anche essere questo un motivo spendibile. Ma solo nella disperazione di una sconfitta imminente e devastante. Una scelta dettata cioè dalla disperazione, ma non presentabile come un atto di giustizia.
L’Italia già affrontò il problema della giustizia per i crimini di guerra, subito dopo la liberazione nel 1945. Ma a differenza di quanto avvenne in Germania con il processo di Norimberga, l’Italia processò e condannò all’ergastolo solo due ufficiali tedeschi, per gravissime stragi: Herbert Kappler, colonnello delle Fosse Ardeatine, e il maggiore Walter Reder. Per molti altri imputati di crimini di guerra, i nostri Tribunali adottarono un ampio riconoscimento delle attenuanti generiche, nonché la scriminante di aver obbedito ad ordini superiori. Una scienza giuridica antica come Roma conosceva la fragilità dell’essere umano nella condizione inumana della guerra. Se vorrà entrare in Europa, l’Ucraina dovrà dimenticare gli eccessi emotivi del senso di giustizia posseduto dal suo eroe nazionale, il cosacco Taras Bulba narrato da Gogol nel 1834.
Michelangelo Russo