Grande successo nell’ambito del Camerota Festival per il trio della vocalist che ha salutato protagonisti il cugino Paolo al pianoforte e Domenico Vellucci al sassofono contralto
Di OLGA CHIEFFI
Lester Young, con quella arguzia immaginosa e un po’ obliqua che faceva di lui il più memorabile coniatore di titoli, pseudonimi e nomignoli nel mondo del jazz, chiamava Ella Fitzgerald “Lady Time”. E’ alla grande cantante che, martedì sera è volato il pensiero, quando le luci del secondo appuntamento della rassegna Suoni dal Castello, un progetto dell’Associazione Culturale-Musicale Zefiro, presieduta da Giuseppe Marotta e diretta dal compositore Leo Cammarano, si sono accese su Emilia Zamuner, figlia d’arte di due pianisti, papà Umberto e Maria Sbeglia, della quale elargisce eguali luminosi e spensierati sorrisi. La vocalist partenopea, la quale si è presentata al pubblico di Camerota in piccolo gruppo, con il giovanissimo cuginone Paolo al pianoforte e Domenico Vellucci al sassofono contralto. Il trio si è incontrato e ritrovato sulle armonie dei più amati standards, da But not for me di George Gershwin, a Don’t get around much anymore di Ellington, passando per My Funny Valentine, All of me, e ancora The Man j Love, Georgia on my mind, brani in cui la Zamuner, ha sfoderato un timing prodigioso e naturale che, accoppiandosi ad una intensa ricerca musicale, le ha permesso di avventurarsi lungo rapide progressioni armoniche, creando luminose e giocose improvvisazioni in scat, parafrasi e digressioni a sorpresa e di confrontarsi con ogni genere di song, conservando, pur nel suo fine perlage, l’aplomb e il dinamismo del suo fraseggio, la nitida e aggraziata fluidità della sua enunciazione. La Zamuner non ha proposto nulla di nuovo: non appare fragile o vulnerabile, sorretta, com’è, dal piacere incrollabile e contagioso del fare musica, né rivela ansie, contrasti, conflitti interiori, passioni brucianti o crudi sarcasmi, non lascia spazio al silenzio, al dubbio, all’incoerenza, all’incertezza semantica, così come il suo mobile e risonante strumento vocale non è marcato da quelle impurità, da quelle lacerazioni o crudezze talvolta necessarie per descrivere le sfumature di un’emozione. Se non commuove, riesce, però, ad incantare, deliziare e generare ammirazione e rispetto tra il vasto pubblico generico, con la sua rara combinazione di atletismo modulatorio, seduzione melodica e luminosità di suono, latrice di una combinazione esplosiva fatta di umiltà e integrità, singolare ampiezza dinamica, virtù di intonazione, calore e limpidezza timbrica, sensibilità armonica, invenzione e ornamentazione melodica e rapidità di pensiero, eleganza e agilità ritmica, che le permettono di dare alla melodia prima un respiro più libero e dinamico, quindi, di cominciare il gioco dell’improvvisazione, minando, ad esempio nelle ballades le intenzioni romantiche, lasciando emergere il suo poderoso scat. La Zamuner ha intavolato intensi dialoghi con il bel sax di Domenico Vellucci, dal suono rotondo supportato da una solidissima tecnica, che è riuscito in diverse occasioni a porre in risalto il mimetismo strumentale della vocalist, ponendosi anche alla guida di un trio dal raffinato interplay, capace di allargare a proprio piacimento la tavolozza sonora, proiettando avanti il linguaggio, senza perdere di vista aspetti essenziali del campo artistico di appartenenza, nella fattispecie l’improvvisazione, l’espressività ritmica e il ritmo, anzi, proprio l’adesione ai concetti ritmici del jazz, la cura minuziosa del sound e il non rinunciare mai, nemmeno in presenza di strutture ampie e vincolanti, alla pratica improvvisativa. Un elegante viaggio ideale nel ripercorrere un pezzo di storia del jazz su tasti, da parte di Paolo Zamuner che non ha raffrenato la sua libertà fantastica e la sua giovanile urgenza espressiva ritagliandosi spazi brillantissimi, rientrando ad ogni istante, a sostenere, sottolineare, suggerire, domandare, rispondere…..Applausi calorosi del pubblico in particolare sulle note di In a sentimental mood e Hit the Road jack, in cui la Zamuner ha coinvolto il pubblico alla Cab Calloway, indottrinandolo anche sui famosi tempi “deboli”, donando loro, dopo il doveroso ricordo da parte di Federica Toriello dell’orrida scomparsa di Crescenzo Della Ragione, di “Era de maggio” quale incantevole bis, vissuta in una luce personale, senza fantasmi nella voce.