Marcel Proust scriveva “Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso”. Se ne ha piena percezione leggendo l’ultimo libro di Andrea Di Consoli “Dimenticami dopodomani” che sarà presentato domenica sera alle ore 20 presso la Sala concerto San Lorenzo, nel centro antico di Eboli, a cura delle associazioni I Cantori di San Lorenzo e Migr-Azioni, con il patrocinio dell’Ente comunale. Andrea Di Consoli è uno scrittore, critico letterario, editorialista e autore radiotelevisivo. Nasce a Uster, nella Svizzera tedesca, da genitori emigrati lucani originari di Rotonda, paese potentino situato ai confini con la Calabria, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, dove torna a vivere in adolescenza prima di trasferirsi a Roma. Il suo ultimo impegno editoriale, “Dimenticami dopodomani” (Rubbettino editore), è una raccolta di pensieri e riflessioni in cui ripercorre con prosa poetica e confessionale la sua giovinezza, gli amori e le inquietudini, le tante persone incontrate nel corso degli anni, in un dialogo di gioie e disincanti con i genitori e i figli ormai cresciuti. Un racconto forte e vero; tanto forte da creare immediatamente un legame emotivo con il lettore che si sente parte dell’intera narrazione. Un libro di respiro passionale. Pagine di sentimenti personali e riflessioni realistiche e struggenti, opera di un autore empirico che condivide i suoi ricordi ed emozioni con il lettore a cuore aperto, senza reticenze né orfismi. Come scrive nella prefazione Mario Desiati (premio Strega 2022) ‹‹In questo libro ci sono tutti i temi cari all’autore: l’identità meridionale, la solitudine, l’amore e il disamore, l’essere padre, l’ossessione della memoria, il tarlo della morte. E sempre emerge un tono da resa dei conti, un corpo a corpo con il senso di una vita, un canto urgente e necessario, febbricitante di scrittore con la fronte calda.›› Un continuum tematico con le precedenti pubblicazioni dell’autore come Lago negro (2005, finalista premio Giuseppe Berto); Il padre degli animali (2007, premio Lucca); La curva della notte (2008, premio Basilicata e premio Carlo Levi); La collera (2012, premio Palmi e finalista premio Biella).
Andrea, nel libro poni al centro l’importanza del ruolo della memoria che approcci non in maniera morale ma da un punto di vista esistenziale. Nell’Era della mediatizzazione della memoria, a cosa servono davvero i ricordi? Mi verrebbe da dire: a niente. Perché spesso fanno solo male. Ci paralizzano. Ci rendono malinconici. Ma dimenticare tutto non è possibile. Il problema è che, con il passare degli anni, i ricordi diventano predominanti, affollano la nostra mente, si sovrappongono sul nostro presente. È il meccanismo della vecchiaia. La vecchiaia non è altro che questo: la predominanza dei ricordi nel nostro animo. Un qualcosa che rende tristi, nostalgici, arrendevoli, convinti di aver già fatto tutto. Ma è solo una trappola psicologica, perché non è vero che abbiamo fatto tutto. È solo che abbiamo la mente affollata di immagini. Bisognerebbe imparare a dimenticare, a sminuire i ricordi, le immagini, le intrusioni costanti del passato. È l’unico modo che abbiamo per non invecchiare.
Strettamente connesso al tema della memoria è quello della morte che definisci il principale motore della vita. Parafrasando Torquato Tasso, l’umanità è costruita su una continua fuga da essa? Ma certo. Che altro possiamo fare, se non rifare la stessa fuga di Tasso? Ci si sveglia ogni mattina – almeno per me è così – con questo bisogno di vestirsi, di uscire, di cercare gli altri, di sfuggire all’ineluttabile. Come si volesse uscire dal mirino, depistare il cecchino. E tuttavia è la morte a creare questa febbre, questi legami, questa fraternità, questo calore, perché la consapevolezza di dover morire rende urgente la presenza degli altri, degli affetti, degli abbracci, degli amori. La morte è un gigantesco motore di fraternità.
Grande protagonista del libro è la solitudine che definisci “l’unica arma che abbiamo per non farci calpestare dagli altri”. In un mondo iperconnesso, che ingloba identità aumentate, quanto è necessario ritrovare e costruire un contatto intimo con noi stessi e con la nostra unicità, senza avere timore di mostrare anche le proprie fragilità? Credo molto nell’importanza di una più larga possibile connessione con il proprio essere più vero. Solo così, con questa risolutezza, è possibile costruire legami veri, duraturi, limpidi, senza ambiguità o fraintendimenti. È pieno di persone che non sanno chi sono, e che cercano di saperlo calpestando gli altri, torturandoli, colpevolizzandoli. Sapersi è l’unico modo che abbiamo per sapere anche chi sono le persone che ti stanno vicine. Ma per conoscersi bisogna vivere molto tempo in solitudine, che è il tempo della piena conoscenza di sé.
E, a distanza di tempo, ritorni a Eboli resa celebre dal “Cristo” di Carlo Levi in cui l’autore torinese racconta al mondo la scoperta di una diversa civiltà, quella dei contadini del Mezzogiorno, “fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore”. Un dolore reiterato che racconti nel libro ripensando “ai tanti meridionali che oggi vivono da soli a Roma, a Milano, a Modena, nel Veneto…” È il racconto di vari Sud a nord di Eboli che guardi con speranza o destinato a essere dimenticato? Ci sono tanti modi di essere Sud. Il Sud non finirà mai. Come non finirà il Nord. Ma cambia sempre, cambia ogni giorno, e ha infinite variazioni interne. Non sono né ottimista né pessimista. Il Sud è questa cosa qua, nel bene e nel male. E ognuno ci trova quello che cerca. Sbaglia chi tenti di leggere il Meridione come un blocco compatto. Cambia da casa a casa, da paese a paese, da persona a persona. Ed è diverso rispetto a ieri. Il Sud è il tuo sguardo, il tuo modo di guardare la vita, la tua disperazione, la tua gioia, la tua nostalgia, il tuo erotismo.
A riguardo, nel libro ci racconti come lasciare andare le cose senza perderle mai. Ci mostri come si possa continuare ad essere circondato dalle persone che ormai non ci sono più, con un pezzo di cuore che rimane incastrato tra ieri e domani. È questo il tuo “per sempre”? Questo è un tema enorme. Io so che tutto finisce. Ma la vita è non arrendersi a questa convinzione. È vero che tutto finisce, ma noi dobbiamo lottare ogni giorno perché non sia così, perché nulla muoia di ciò che ha reso migliore il mondo. È la mia personale rivolta. Io non mi rivolto contro il potere, ma contro la morte, il disincanto, il disamore. Sono un partigiano dell’amore e dell’unica utopia che conosco: che le cose belle durino, e che abbiano ancora un senso e una durata. Sono un partigiano di tutto ciò che nega l’inferno. Vito Leso