di Corradino Pellecchia “Sei una scamorza!” così mi mortificava don Arturo Carucci, quando sbagliavo a giocare nelle interminabili partite di tressette del giovedì. Voleva sempre vincere e non ammetteva che il suo compagno commettesse errori. Di solito venivo chiamato quando mancava il quarto giocatore; ero onorato di questa scelta, ma speravo sempre di non dover fare coppia con lui. Frequentavo assiduamente la sua casa di via Saverio Avenia; spesso mi faceva leggere in anteprima i suoi appunti dattiloscritti o insieme sceglievamo le fotografie che avrebbero corredato una sua pubblicazione. Ogni mattina, alle otto e trenta, celebrava messa nella sua cappella privata, dove conservava gelosamente una reliquia di S. Teresa di Lisieaux, e qualche volta gli ho fatto da chierichetto. I miei labili ricordi giovanili mi portavano a cincischiare con campanello e ampolline, ricevendo in cambio delle occhiatacce torve. Condividevamo la passione per i cani. Ricordo le lunghe passeggiate a Lungomare con Alì II, un cane anarchico, refrattario ad ogni comando, e con l’ultimo, un boxer affettuosissimo, Mon Ami, che gli saltava in braccio e gli leccava la faccia mentre parlavamo. Quel cane era la sua gioia; l’aveva acquistato in età già avanzata contro il parere degli amici; ma lui diceva che questa volta non avrebbe sofferto, perché gli sarebbe sopravvissuto. E così è stato. Mon Ami era il padrone della casa; ogni volta che mi vedeva per la contentezza se la faceva sotto, provocando l’animata reazione di Angelina, la perpetua, che mal lo sopportava. Nel testamento il burbero monsignore lasciò 500 euro al mese da destinare a chi si fosse curato del suo inseparabile amico a quattro zampe. Don Arturo era un prete fuori dai canoni; dall’ingegno versatile, dalla battuta pronta e pungente, dal giudizio acuto e tagliente. E’ stato fra i primi ad indossare a Salerno il clergyman, a viaggiare all’estero, ad avere atteggiamenti anticonformisti, ma era rigoroso e severo. Ricordo una domenica d’estate che celebrava messa al duomo; faceva un caldo bestiale e le donne seguivano la messa soffiandosi con i ventagli. Allora, il sacerdote volgeva le spalle ai fedeli. All’improvviso si girò adirato dicendo “Qui non stiamo a teatro!”. Aveva il dono della scrittura e della storia, ereditate dal padre Carlo e dagli zii, il canonico Giacinto Carucci, e da monsignor Arturo Capone. Soleva ripetere che la sua penna era mossa “solo dal grande amore che porto alla mia Salerno e a quanto essa racchiude”. Per lui parla la ricca bibliografia: 66 pubblicazioni, che hanno investito un campo vastissimo: storia, agiografia, arte, leggende e tradizioni salernitane, poesie, saggi. A lui va il merito di aver individuato il luogo del martirio di San Matteo che non fu l’Etiopia in Africa, bensì l’Etiopia del Ponto e di aver messo in luce numerosi aspetti inediti della nostra cattedrale. A chi lo accusava di essere un prete “intellettuale”, che dedicata tutto il suo tempo alla ricerca e allo studio, ricordava don Leone Cerasuolo, un benedettino di Cava, che diceva che si poteva parlare di Dio anche raccontando argomenti profani, perché è Dio che regge e governa i fatti del mondo. Don Arturo Carucci era nato a Salerno nel 1912 – “Ringrazio Dio – diceva – d’avermi fatto nascere salernitano”. Ordinato sacerdote nel 1935, fu viceparroco della millenaria chiesetta di san Gregorio Magno in via Mercanti, che oggi ospita il Museo della Scuola Medica Salernitana. A 32 anni fu nominato cappellano del Sanatorio “Giovanni da Procida”, che durante lo sbarco alleato per giorni e giorni fu teatro di violenti scontri con numerosi caduti dall’una e dall’altra parte (una mitragliatrice tedesca fu addirittura piazzata sul tetto del nosocomio). Don Arturo aveva assistito a quella “tormenta che si era abbattuta su Salerno nella tragica estate del ‘43”. La sua azione umanitaria e sacerdotale fu ricordata nel libro “Salerno!” da Hugh Pond, che prese parte alla spedizione in qualità di maggiore dell’esercito inglese e aveva avuto modo di leggere i diari della battaglia scritti da lui e dal padre Carlo, testimoni oculari di molti avvenimenti. Il giovane cappellano era rimasto al suo posto, insieme a molti altri sacerdoti salernitani, obbedendo al suo arcivescovo, monsignor Monterisi, che li aveva esortati a rimanere vicino al popolo. Preoccupato per la sorte degli infermi, decise di portare i suoi malati in un altro sanatorio, a Napoli, attraverso il valico di Chiunzi. Dopo tanti giorni di privazioni, trascorsi nella galleria sulla collina de La Mennola, s’incamminò, con infermieri e suore, alla volta di Maiori: “alla testa della colonna nel suo abito bianco coperto di macchie aveva l’aspetto di un santo moderno”. Per rievocare quelle giornate pubblicherà: “A Salerno nell’infuriare della battaglia (settembre 1943)”, “Lo sbarco anglo-americano a Salerno (settembre 1943)”, “Salerno: settembre 1943, Salerno Capitale”. Nel 1994, per celebrare il cinquantenario di “Salerno Capitale” al Casino Sociale venne proiettato un film del regista Carmine Todisco, che lo vedeva protagonista. Dopo la guerra, don Arturo riprese i suoi studi sulla tradizione agiografica di San Matteo, polarizzando in seguito la sua attenzione anche sul duomo ed i suoi tesori, che fu “il luogo della sua vita”: lì era stato ordinato sacerdote ed aveva esercitato il suo primo ministero sacerdotale; lì quotidianamente celebrava messa e come canonico adempiva all’obbligo della recita corale dell’Ufficio. Nel 1944 fu nominato direttore del Museo della Cattedrale, divenuto poi Museo Diocesano “S. Matteo”, carica che mantenne per oltre sessant’anni. Nel 1951 ebbe l’incarico per l’insegnamento della religione alla scuola media statale di Largo Campo; un’attività che lascerà il segno in tanti giovanissimi allievi che continueranno a frequentarlo, soprattutto nei loro anni universitari. Ricordo ancora un sonoro schiaffone, con le cinque dita che mi rimasero stampate in faccia, per non aver saputo elencare i dieci comandamenti. Nel 1962 diede alle stampe una “Guida del Duomo e del suo Museo”, cui fecero seguito “Gli avori salernitani del secolo XII” (1965) e “Il rotolo salernitano dell’Exultet (1971). Fu scelto da monsignor Pollio per far parte della Commissione dell’Arte sacra con l’ingegner Stefano Santoro ed il professor Ugo Pecoraro, che nel 1978 lo affiancò come vicedirettore nella conduzione del museo e con lui collaborò alla realizzazione del libro “Strutture architettoniche e forme d’arte della Cattedrale di Salerno. La cripta”, primo di una serie di quattro volumi, di cui, però, ne saranno pubblicati solo due. “Avevo con lui un rapporto affettuoso, familiare, tanto è vero che lo chiamavo “Zio Arturo” – confida commosso Ugo Pecoraro – fra di noi non c’erano segreti. Dopo il sisma del 1980, su incarico di monsignor Pollio, abbiamo visitato le chiese della diocesi per censire i danni subiti e inventariare le opere, per evitare che venissero disperse. Nell’archivio del museo sono ancora conservate le agende con i nostri appunti. Potrei raccontare tanti aneddoti. Una volta eravamo in viaggio alla volta di Subiaco e si parlava del più e del meno, quando per scherzo gli dissi: “Siete un bell’uomo, affascinante, vi potevate fare una famiglia, avere dei figli, raggiungere una posizione di prestigio, invece… Ma, se da qui a cent’anni andate lassù e non trovate niente? Sapete la fregatura: avete rinunciato alla bella vita per niente!”. Mi guardò e serio rispose: “Se io vado lassù e non trovo niente, mi metto a fare il pazzo!”. Un’altra volta ci trovavamo a Roma, ospiti dell’archimandrita Elia Yaraian, rettore della basilica di Santa Maria in Cosmedin, il quale gli chiese di celebrare la messa all’indomani. Prima di coricarsi, preoccupato mi confidò che non se la sentiva, aveva paura di sbagliare, perché il rito era diverso. “Ma Dio è sempre lo stesso!”, gli dissi per incoraggiarlo. Ricordo di averlo fotografato con il caratteristico copricapo cilindrico nero”. Il professor Vincenzo Garzillo, l’altra anima del museo, esecutore testamentario, è stato il suo paziente e fidatissimo amico. “Sono vicedirettore del museo dal 1993, da quando sono andato in pensione. Ho giurato a don Arturo che sarei rimasto al mio posto, fin quando le forze me lo avessero consentito. Don Arturo era un sacerdote che incuteva profondo rispetto. Non aveva paura di niente e di nessuno: né di vescovi, né di politici, né tantomeno dei soprintendenti, coi quali i rapporti non furono sempre idilliaci. Con l’architetto Mario De Cunzo intavolò una lunga polemica per i criteri adottati per la conservazione e l’esposizione al pubblico dei preziosi rotoli dell’Exultet. Temendo un suo colpo di mano, quando si recava nelle sale, lo facevano sempre accompagnare da un vigilante. Mortificato da questa situazione, diede le dimissioni – non sarebbe stata la prima né l’ultima volta – consegnando le chiavi a monsignor Grimaldi; ma questi gli disse: “Artù, se vuoi che la Soprintendenza si impossessi del museo, lascia le chiavi e vattene”. Di fronte a questa “minaccia”, ritirò immediatamente le dimissioni. Non meno feroce fu la “querelle” con un altro soprintendente, l’architetto Giuseppe Zampino, per la gestione del museo, nella quale dovette intervenire anche l’arcivescovo Pierro. Il nostro non aveva peli sulla lingua. Una volta tuonò contro gli “uomini di potere”, accusandoli che non avevano alcun interesse per la cultura. Se la prese anche con De Luca: “Il sindaco – disse – ha fatto belle cose, strade, fontane, marciapiedi, però per la cultura non ha fatto quasi nulla”. Se oggi esiste il museo, lo dobbiamo a don Arturo, che alla sua appassionata custodia ha consacrato i suoi anni migliori; a questa istituzione ha lasciato la sua abitazione ed un negozio, oltre alla sua collezione artistica e alla miriade di libri, che arricchivano il suo splendido studio, nonché numerosi reperti archeologici di grande interesse artistico, conservati nella Sala Carucci”. Mario D’Elia, che prima lo ha affiancato e poi, per suo espresso desiderio, ha preso l’onere del testimone della direzione del museo, carica che ha mantenuto fino al 2012, autore del pregevole libro “Don Arturo (1912-2006), quasi un’autobiografia”, così lo ricorda. “Il vescovo stava approntando la mia nomina di vicedirettore, ma lui invece gli suggerì di scrivere “condirettore”; fu un atto di grande signorilità. Era un prete per certi versi scomodo; aveva un carattere forte. Bisognava saperlo prendere; in fondo faceva anche tenerezza: per certi versi era un bambino. Il suo sogno era quello di veder completato il museo per poter esporre tutte le opere del Settecento, Ottocento e Novecento. Auspico che un giorno tutta la sua “opera omnia” possa essere raccolta, in modo che non cada nell’oblio una figura che ha lasciato un cordoglio sincero e un vuoto, non soltanto in ambito ecclesiastico e culturale, e che i suoi scritti siano ancora spunto e stimolo per chi voglia raccoglierne l’eredità e l’impegno, soprattutto nella valorizzazione del nostro passato storico-artistico”. Don Arturo è stato uno storico erudito, esperto di arte sacra, poeta, saggista, valente oratore, brillante traduttore di testi latini medievali (la Historia Langobardorum di Erchemperto, il Chronicon Salernitanum, il Chronicon Sublacense e i Carmi di Alfano), ma soprattutto un sacerdote di grande spiritualità. La Chiesa e la sua città sono stati i suoi grandi amori. La sua esistenza è stata spesa nella contemplazione della bellezza, riflesso della bellezza increata, e per questa via ha realizzato il progetto di Dio.
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