di Michelangelo Russo
Il Generale Vannacci ha un curriculum professionale e scientifico di tutto rispetto. Ma è stato rimosso dal suo incarico per le sue idee e per il coraggio di averle esposte in un libro. Sono idee diametralmente opposte alle mie. Ma una ne abbiamo assolutamente in comune: il diritto costituzionale di libertà di pensiero e di sua espressione con mezzi leciti, quali un libro.
Il Generale Vannacci ha l’aspetto, la grinta, il piglio e i modi, per così dire, di un militare fascistone. Ma ha il diritto di essere come è, quando vuole esprimere il suo pensiero. Il suo libro, peraltro, è già un best seller. Non mi meraviglia. La pancia di molti italiani, si vede, la pensa come lui. Solo che non ha il coraggio di dirlo in pubblico. Ma lo ha detto con il voto, nel segreto dell’urna, quando ha votato la destra in massa. Che adesso finge una moderazione che, di sostanza, non ha e non può avere. La frettolosa rimozione dal comando di un ufficiale ineccepibile risponde alla logica strategica della destra, e in generale a una ripulitura di faccia, dopo la vittoria elettorale, che in questo caso non fa onore al Governo. Perché sacrifica, col pretesto dell’ossequio alla Costituzione, un suo pilastro come l’art. 21 della Carta del 1948. L’inopportuna iniziativa del Ministro Crosetto apre la strada, peraltro, a possibili futuri interventi di analoga sostanza contro espressioni del libero pensiero di qualsiasi servitore dello Stato che abbia il coraggio, a un certo punto, di porsi pubblicamente in contrasto col pensiero governativo. I Padri Costituenti vollero che nella Nuova Italia Democratica le idee venissero combattute con le idee, e non con la forza o la repressione. La destituzione dall’incarico di un militare di valore è un atto di repressione e non di giustizia. Negli anni ottanta, quando una ondata di arresti sulla sola base delle rivelazioni di un pentito (rivelatesi poi letali per l’accusa nel processo) colpì l’estremismo di destra, una parte di Magistratura Democratica napoletana, con in capo l’indimenticabile Vincenzo Albano, cercò di pubblicare una critica degli eccessi accusatori basati sulle sole dichiarazioni verbali dei pentiti sfornite di riscontri. E quindi una indiretta difesa, noi di sinistra, dei diritti processuali dei fascisti. Purtroppo la mozione non passò per motivi giudicati di opportunità politica. Fu uno sbaglio! La migliore tattica politica, per chi dichiara di battersi per la libertà di espressione, è proprio quella di combattere anche per la stessa libertà dell’avversario. Chi scrive ha affrontato per ben due volte, nella sua lunga carriera di 45 anni in magistratura, una situazione simile a quella del Generale Vannacci. Per ben due volte ho subito un procedimento disciplinare per l’espressione pubblica, sebbene condita con la salsa sulfurea della satira, del mio dissenso. La prima volta accadde nel 1980, per le mie vignette sarcastiche pubblicate su Repubblica l’anno prima (quando ero Sostituto a Milano); l’accusa era di compromissione del prestigio della Magistratura con il dileggio della caricatura dei disegni.
Il C.S.M mi assolse, proprio in nome di quell’art. 21 della Costituzione che vale per tutti i cittadini italiani, anche quando il datore loro di lavoro è lo Stato. Quindi, anche per i militari. E l’art. 21 della Costituzione è citato pure nella seconda sentenza che mi assolse, nel 2004, dalla seconda accusa di attentato al prestigio dell’Ordine Giudiziario quando rappresentai la satira su Berlusconi, ingaggiando il Teatrino di Pulcinella dei Ferraioli, dal titolo “Il legittimo sospetto”. Un chiaro dileggio delle leggi ad personam che il Cavaliere tentava di imporre. Fu una sconfitta del Ministro leghista di allora, Castelli, che subì una assoluzione all’unanimità del Consiglio e stretta di mano finale (adesso possiamo dirlo) dell’allora Presidente del C.S.M Virginio Rognoni. Questo per dire che con i principi costituzionali di libertà non si scherza. La Repubblica ha ancora i suoi anticorpi contro le tentazioni autoritarie, anche quando si mascherano da paladine di valori in cui non credono effettivamente.