di Antonio Manzo
De Luca è una furia, dopo la decisione del Governo di bocciare la legge regionale per il terzo mandato e che intende impugnarla davanti alla Corte Costituzionale Lui è una furia perché da “cristiano assurdo” si oppone mutuando le parole di Ignazio Silone che si definì un “cattolico senza chiesa e un comunista senza partito”. Si, De Luca è un uomo di battaglia perché cristiano assurdo come etichettò il cardinale Benedetto Caetani diventato Papa dopo il gran rifiuto di Celestino V quei cristiani privi di radicalità evangelica contro i potenti che litigavano sulla spartizione di prebende e posti in prima fila. De Luca è una furia che intende sfidare, con le parole di ieri, un Paese pigro con una democrazia asfittica che si regge su una insopportabile ipocrisia di una rappresentanza politica non legittimata ma, anzi, che tende ad avere un popolo senza la possibilità di decidere con il voto il suo destino a vari livello. Così approfitta del “sentimento del grande orgoglio che gli ha dedicato il Governo” per tornare sulla scena nazionale qualora la avesse mai abbandonata con gli arnesi di un <modesto artigiano della politica> dopo essere stato inseguito da chi contattava pezzi forti dello scenario politico mondiale. Lui correndo più forte di tutti, ha lasciato alle spalle le deformazioni grottesche del carattere, che autoironicamente riconosceva, e le caricature generate dall’invidia che disprezza con il silenzio dell’’artigiano che cesella. E’ una furia perché, dopo le parole di ieri, persegue con la forza bestiale del suo talento, della sua come sempre imperfetta grazia e stima di sé una passione politica e intellettuale profonda in ogni suo risvolto. De Luca una furia, sempre. Combatte, instancabile, senza il riposo inane dello snob e dell’intellettuale, senza mai sacrificare il sense of humour che è sempre anticamera dell’intelligenza, rivela la insofferenza per quella che definisce la politica politicante con la futilità dell’esistenza pubblica accomodante e inciuciona. La furia politica è un esemplare splendido in ogni sua manifestazione: nella cattiveria, nella dolcezza molto rara e fortemente ironica, nello stupore che ha opposto a ogni attacco personale a lui rivolto. Con questa Italia che scegli quasi a vita parlamentari non eletti ma designati dalle consorterie politiche romane non può che litigare e, quando ci si mette, anche con la Meloni e la Schelin, con la capacità di irridere l’ipocrisia e la fiacchezza mentale. La sua ultima grande battaglia comincia quando, nonostante il Pd, con parole più abilmente modeste vuole far recuperare dignità umana a chi intende dedicarsi al bene comune dicendo innanzitutto pane al pane e vino al vino perché detesta l’apparenza. <Noi andiamo avanti, non cambia una virgola> lanciando già i temi della sua campagna elettorale con l’elenco delle cose fatte e dei cantieri programmati (10 ospedali nuovi, 170 case di comunità, piani urbanistici non solo nel cuore di Napoli). Vogliamo far tornare i cittadini a votare> dice De Luca per rimuovere una torpidezza democratica che si manifesta in un diffuso assenteismo ma già venato da un piccolo ducismo populista plebiscitario. Il tasso basso di partecipazione elettorale fanno diventare le istituzioni come consorterie di consigli di amministrazione che sono organi validissimi ed essenziali nelle loro competenze ma non sono istituzioni di governo. E’ materia classica anche per quel supponente moralismo così frequente in tanta sinistra che ha voluto negare con aristocratico disprezzo politicamente sbagliato quasi sempre disastroso. Poi verranno, nella campagna elettorale, anche i temi del familismo campano federalistico e clientelare. C’è solo da avere pazienza. Soprattutto per stanare quegli elemosinieri dei voti di preferenza che si presentano a chiedere con l’umiltà che subito dopo la trasformano in alterigia istituzionale per il posto conquistato come se avessero vinto un concorso pubblico.