Abbiamo raggiunto il protagonista della mise en scene del capolavoro dostoevskiano ospite del massimo cittadino per l’intero weekend
Di GEMMA CRISCUOLI
Giocarsi tutto: la credibilità, l’amore, il diritto a vivere. Senza dimenticare che troppo spesso il banco bara. In scena da domani sera alle 21, sino a domenica, al Teatro Verdi di Salerno con “Il giocatore” diretto da Gabriele Russo, Daniele Russo riveste il duplice ruolo di Aleksej e Fëdor Dostoevskij.
Come è riuscito a sottrarsi alla soggezione che un capolavoro del genere suscita?
“Quando si porta in scena un grande testo o un grande personaggio, si rende necessario dimenticare l’impresa che si sta compiendo. In caso contrario, nessuno avrebbe il coraggio di costruire uno spettacolo attorno a quel che di prezioso la letteratura ci ha offerto. Occorre affrontare la prova prevista con la semplicità e la serietà che il palcoscenico comporta. Bisogna viversi quel momento, farlo proprio e in questo modo la grandezza della scrittura diventa un pregio”.
La metascrittura presente nell’allestimento può essere concepita come un’occasione per riflettere sul teatro stesso?
“Vista la condizione metateatrale che coinvolge sia l’autore che il suo personaggio, non può non sussistere un parallelo con il gesto di andare in scena. Dostoevskij è stato costretto a scrivere l’opera in ventisette giorni e, trattandosi di un artista del suo calibro, è riuscito a conseguire il suo obiettivo; noi abbiamo provato per trenta giorni. Il teatro crea scommesse di continuo. Ogni nuovo allestimento è una scommessa con il pubblico e con l’autore, bisogna fronteggiare il rischio, esporsi anche all’azzardo”.
È lecito affermare che i personaggi sono l’uno il banco di prova dell’altro?
“Sicuramente. Tra Aleksej e il suo creatore si ha un incontro che è anche uno scontro. Non si sa chi vince e chi perde, l’uno sfuma nell’altro. Questo piano narrativo, che si articola su due tangenti e non su due parallele, può essere letto come una metafora della condizione dell’artista. Oggi non si può sbagliare. In una società che fagocita tutto, la situazione è molto difficile, perché il tempo per far maturare un percorso artistico è estremamente ridotto”.
Come è mutato il suo approccio al palco dopo questa esperienza?
“Ogni spettacolo costituisce un arricchimento, anche quando le condizioni non sono le migliori. Nella nostra messinscena abbiamo tre piani narrativi: quello dello scrittore, quello di Aleksej in azione e quello di Aleksej nel momento del ricordo. Una struttura impegnativa e costruttiva. La cosiddetta valigia dell’attore può essere pesante o leggera, ma di certo non è mai vuota”.