di Olga Chieffi
Pagliacci e Rigoletto si sono trovati per una qualche strana coincidenza ad essere rappresentati di seguito, in questa nostra seconda pazza estate di pandemia, che ha sconvolto i cartelloni teatrali di tutto il mondo. Se l’agosto salernitano, nell’ormai Arena lirica all’aperto del teatro Ghirelli, si è concluso con l’opera di Leoncavallo, dove gli spettatori, quelli sul palco, si trovano in un delirio tra realtà e finzione, tra comico e tragico, amore e morte, il settembre verrà inaugurato dalla rappresentazione del Rigoletto di Giuseppe Verdi, per la regia di Pier Francesco Maestrini e Daniel Oren, sul podio dell’Orchestra Filarmonica Salernitana e del coro preparato da Armando Tasso. Rigoletto e Canio sono legati a filo doppio, entrambi guardiani e buffoni, mostrano la crudeltà e la sofferenza nascoste dietro la maschera che frappongono tra loro e chi li circonda, siano essi la corte mantovana o il pubblico. Ridere è una funzione sociale fondamentale che esorcizza qualcosa che non vogliamo vedere. Il pagliaccio diventa, così, metafora della vita umana e dell’esistenza. Una lotta tra la forma perfetta e l’informe materia di cui siamo composti, ma diventa sempre di più una figura simbolica non soltanto dell’esistenza, ma anche dell’artista, di chi si esibisce. L’attore, ad un certo punto, vuole togliersi il trucco per confessarsi, l’atto più profondo e autentico che si possa offrire al pubblico, incarnando una figura più complessa: Canio e Rigoletto tolgono la maschera per essere autenticamente compresi. E’ quanto comprenderemo mercoledì sera, a partire dalle ore 20 Un cast prestigioso per l’ impianto tradizionale, di un’opera, la cui trama è nota a tutti, dove caratteri e ambiente vengono in scena, con la forza di eventi naturali. Il duca di Mantova, interpretato dal giovane tenore Valentyn Dytiuk, già apprezzato Rodolfo, è figura splendida, ammirevole, sana anche nell’antipatia che suscitano i suoi costumi. Bisogna giudicarlo in modo esatto nel mezzo della corte che Verdi approntò con rapidità, restringendo i confini della reggia di Francesco I di Francia, che la censura veneziana disapprovava, come disapprovava la gobba di Rigoletto e il sacco in cui Gilda viene rinchiusa, ormai morente: particolari che rimasero, poi, al loro posto per la ferma decisione di Verdi. Comunque, l’abbandono e la riduzione della magnifica corte francese fanno gioco più che mai alla drammaturgia verdiana: una realtà in piccole dimensioni dove le figure sono calate, pigiate come a forza entro uno spazio sacrificato, quasi irreale giudicando la loro “statura”, e dove esse respirano quasi a contatto con la realtà umana di ogni spettatore. La corte di Mantova è assai ben descritta già nel primo atto, vero cantiere di progettazione di tutte le parti della vicenda, che poi avranno sviluppo reciproco contrasto. La vanità dei cortigiani, agli ordini di Marullo (Angelo Nardinocchi), in cui troviamo Matteo Borsa (Enzo Peroni), la Contessa di Ceprano (Miriam Artiaco) e il Conte di Ceprano (Maurizio Bove), risulta appesantita da un malgarbo contadino che, con tutta verosimiglianza, il dongiovannismo del duca cerca di compensare con una disponibilità all’amore tenero, un atteggiamento che il don Giovanni vero, quello di Mozart, certo non conosce. E’ questa specie d’amore che lo avvicina a Gilda, che avrà la voce del soprano Hasmik Torosyan, colombella garrula, e aggiunge ad ogni galanteria un vezzo di sensualità patetica o troppo appassionata. Gli altri cortigiani Verdi li ammucchia in una sorta di mentalità comune che essi derivano dall’opera comica, mozartiana e rossiniana. Su di essi piomba la maledizione di un vero aristocratico, Monterone (Italo Proferisce): è un segnale che mette allo scoperto il destino di Rigoletto, un maledetto da sempre, un segnato da Dio, quasi consegnato fuori del tempo, affidato alla voce di Franco Vassallo (nella seconda replica, invece, sarà Mario Cassi). Sua figlia Gilda, che ha al suo fianco Giovanna (Victoria Shereshevskaya), come vittima di un reietto, dovrà ambire ad una gioia improvvisa e superiore, che la distacchi totalmente dal suo destino familiare, o dovrà seguire l’altra sua via, altrettanto predestinata e logica, quella di vittima sacrificale. Per un po’ il suo futuro oscilla sulla punta di una miracolosa incertezza (i vocalizzi e gli acuti limpidi e malleabili di “Caro nome”). Poi, tutto precipita. Gilda è troppo inconsistente per avere fortuna, appartiene alle ornamentazioni del primo romanticismo, di artigianato ancora settecentesco, e la follia degli uomini moderni, che ella non conosce, non può che far scempio di una purezza adolescenziale. Tutta la trama verrà saldamente riassunta nella forma classica del quartetto, che rispetta i canoni estetici del primo Romanticismo, ancora osservante delle forme classiche. Si snoda intorno alla melodia principale del tenore, che deve essere molto esposto, vero bersaglio delle mire di Rigoletto, che mormora nell’ombra. Le due donne restano invece soggiogate dal fascino del duca: Maddalena (Martina Belli) frascheggia, Gilda prende il motivo di lei (e lo paragona ai palpiti, ai trasporti del tenore), senza poterlo dominare perché frenata e interrotta dalla volontà del padre. Dall’incontro fra la situazione del libretto e la tecnica musicale adottata, quasi strumentale, nasce un fatto di teatro, un fatto scenico e visivo, raro nella sua evidenza, anche perché composto soltanto di suoni. La rigida classicità della costruzione, dove si compiono i confronti, verrà bruscamente scomposta dall’infuriare del temporale, una tregenda attraversata dai lamenti degli infelici, dove appare al galoppo il ghigno indifferente del killer, Sparafucile (Carlo Striuli) L’incontro avviene nel fondo di un vicolo, la notte, in un buio di coscienza. Al risveglio il terrore, la cruda luce della delusione. La figlia è caduta sotto lo “strale” della “giusta vendetta” di Rigoletto, giusta secondo lui, che inutilmente si è ribellato ad una sorta ingiusta e, quindi, attira di nuovo la punizione del “Dio tremendo”. Ironia impietosa. Persino il duca si salva anche nella simpatia del pubblico, e sembra che soltanto agli occhi di Rigoletto appaia e si comporti da gaglioffo. La colpa rimane dei vecchi. A loro la consolazione di piangere come forse mai hanno pianto in un melodramma.