Gemma Criscuoli
“Chi può desiderare di diventare me?” si chiede, senza alcuna enfasi o autocelebrazione, Sergej Ejzenstejn al ricordo degli studenti dei propri corsi, che vogliono imitarlo in tutto. La risposta potrebbe essere : chi non lo vorrebbe? In occasione del centenario della prima de “La corazzata Potemkin” al teatro Bol’soj, quando anche i custodi affollarono la sala, travolti dall’entusiasmo, l’associazione Tempi Moderni, che ha in Marco Russo il suo direttore artistico, ha dedicato, presso Palazzo Fruscione, una serata al noto capolavoro, accompagnato dal commento sonoro dal vivo del Maestro Roberto Marino e presentato da Miki Rosco e Michele Andronico. L’appuntamento ha rappresentato una tappa della IX edizione di Racconti del contemporaneo. La celebre esternazione fantozziana e la parodia dell’opera nel film di Salce, che hanno aperto l’incontro, dimostrano sarcasticamente come il pregiudizio sia il primo nemico di ogni fruizione. Mentre Giuseppe d’Antonio, che ha collaborato all’iniziativa con Linea d’ombra, ha ricordato la necessità di immaginare una rete di qualità in vista di un panorama culturale di ampio respiro, Andronico, attingendo alle memorie di Ejzenstejn, quando un infarto nel 1946 lo induce a riflettere su di sé, ne ha ricordato una vita “vissuta con gioia e il bisogno di trattenere sulla carta gli istanti”. Ha, inoltre, menzionato l’ispirazione che gli venne dall’osservare alcune contadine nella neve, avvolte da scialli variopinti, perché “ci cercavamo da un pezzo il colore e io”, senza dimenticare l’ansia che lo colse quando, proprio durante la proiezione al Bol’soj, dovette unire piccoli pezzi di montaggio con la saliva, perché la parte finale del film non era stata inserita, eppure tutto andò a buon fine. “Obbedienza o ribellione è il dilemma, posto in modo critico, dal lungometraggio-ha ricordato Rosco- Non è un film politico, in cui vi sia una tesi e un protagonista che evolve, ma un film fatto in modo politico in un’ottica problematica, in cui gli oggetti e il montaggio, oltre ogni linearità, connotano una vicenda che vede come protagonista il popolo”. “Già l’opera può essere considerata una tradizione multimediale, dato il connubio tra teatro e musica- ha affermato Marino, che ha sottolineato con ammaliante fascino ogni inquadratura al piano- e le musiche di scena per opere teatrali erano frequenti e richieste, per tacere del considerevole guadagno che tale attività comportava. Ho recuperato la tradizione del cinema muto, in cui i pianisti avevano a disposizione archetipi sonori, piccole partiture adatte a qualunque circostanza fosse mostrata sullo schermo, che si trattasse di una battaglia, di un matrimonio o dell’irruzione in scena del personaggio malvagio di turno. Non era affatto raro che i musicisti che si esibivano dal vivo fossero allievi di coloro che hanno segnato la storia della musica e sapevano creare un coinvolgimento che raramente si ottiene nel pubblico. La mia scaletta di lavoro ha, dunque, compreso una serie di suggestioni tra improvvisazioni e scelte studiate a priori”. Il secolo di vita non ha tolto nulla allo smalto della pellicola, in cui ogni dettaglio risulta necessario ed evocativo. La prima inquadratura è una mareggiata, che prefigura il moto travolgente degli eventi. Il crocifisso, che il prete complice degli ufficiali a bordo della corazzata sbatte con ritmo cadenzato sul palmo della mano, esprime la volontà oppressiva della religione come instrumentum regni. Lo stesso personaggio si fingerà morto durante l’ammutinamento: non esiste prepotenza senza vigliaccheria. I marinai che si tuffano per soccorrere il coraggioso Vakulinchuk, ormai morto, prefigurano le barche che, fraternamente, circondano la corazzata per iniziare con essa un nuovo cammino verso la libertà. Quando la tenda in cui il corpo del generoso marinaio richiama una folla interminabile, c’è una ripresa dall’interno della tenda stessa verso l’esterno: la posizione di Vakulinchuk coincide con il punto di vista dello spettatore, perché il buio della morte e dell’oppressione deve aprirsi verso la luce del sogno collettivo di riscatto. Proporre un’inquadratura da diverse prospettive, esasperarne i particolari, ampliarne le emozioni con un dinamismo lirico è una tecnica che il regista predilige. La donna che vede il corpo del figlio calpestato sulla scalinata di Odessa ci immerge senza scampo nell’orrore. Quando finalmente i russi uniscono le forze, la prua della Potemkin riempie l’inquadratura, solcando per sempre, ieri come oggi, il nostro immaginario.





