di Oreste Mottola
Altroché l’incatenarsi alla sedia di Vittorio Alfieri. Secoli dopo c’è chi si si è rinchiuso (letteralmente) in un piccolo sgabuzzino, isolato dal resto della sua abitazione, e senza fermarsi “nemmeno per mangiare”, in pochi mesi, ha scritto a mano e di getto, una prima versione della sua storia. Ha realizzato ben presto che le tante pagine prodotte, oltre quatrocentocinquanta cartelle, erano pasticciate, con una grafia incerta e a tratti illeggibile, persino per lui stesso. Pur ottantacinquenne, ha deciso di imparare i primi rudimenti di scrittura digitale ed ha riscritto tutto il manoscritto, apportandovi ulteriori modifiche e integrazioni. Nasce così “La mia infanzia nella Terra delle Serre”, autore Martino Passannanti. Dopo qualche mese di scrittura, davvero matta e disperatissima, ha capito che le tante pagine prodotte erano pasticciate, con una grafia incerta e a tratti illeggibile, persino per lui stesso. Pur ottantacinquenne, ha deciso di imparare i primi rudimenti di scrittura digitale e ha riscritto tutto il manoscritto, apportandovi ulteriori modifiche e integrazioni. In totale per produrre il testo che il lettore ha davanti ci sono voluti diciotto mesi di impegno continuo e davvero totalizzante. La diabolica ferraglia del computer, capace di fermare ben altri sovrumani sforzi, non piega il coriaceo Passannanti che vince così la sua primordiale sfida. La vita, fin dall’inizio, non gli aveva certo sorriso: “Eravamo una famiglia di sette persone, tre sorelle e due fratelli, più i miei genitori, eravamo quasi tutti piccoli, e io ero il penultimo. La nostra casa era piccola, e in sette ci si stava molto stretti, non avevamo sedie per sederci, non avevamo soldi per comprarle e non c’era neanche spazio, usavamo i tronchi di querce fino a quando faceva (molto) freddo (poi) le usavamo per il fuoco, avevamo un lume a petrolio, ma non avevamo sempre i soldi per comprarlo, allora usavamo l’olio di cucina per accenderlo. Avevamo un gatto, che era ancora più affamato di noi, una sera si mangiò anche il moccolo della lampada e rimanemmo senza luce. Nelle vicinanze abitava anche mio nonno Martino, e i miei zii e tanti altri parenti. Ma tutti morti di fame peggio di noi, la mia famiglia era al primo posto, di miseria. Poi c’era la categoria dei ricchi e Martino li vede così: “I ricchi, e quando c’è tanta povertà, loro diventano sempre più ricchi, e i poveri diventano sempre più poveri, dicono che è matematico? I ricchi sono come gli avvoltoi, aspettano che muori per strozzarti”. Poi inizia la sua storia con Mariella: “Una mattina io venivo da te tu mi vedeste io aspettava all’ombra della grande (quercia) io mi siede per terra per che tu venivi verso di me, bella come il sole io mi pulivo gli occhi e mi dicevo: – ma e possibile quella ragazzina cosi bella sta con me, dicevano, no non è possibile. Quando stava per avvicinarmi a te io disse: – Mariella ma come ti passò per la testa di metterti proprio con me? e tu senza parlare ti buttasti sulle mie braccia, non lo so che successo ricordo, però la grande quercia, vede tutto, ma la grande quercia non disse niente a nessuno, non lo ha mai dimenticato, di quella amore di ragazzina”. La felicità termina subito una serie di disavventure complicano dopo la vita di Martino, a cominciare dal padre che non riuscendo a fortuna in Africa deve rientrare in paese dove avvia un commercio di mucche che sarà travolto dalla guerra e dalla terribile inflazione prodotta dalle Am lire degli occupanti e da un arresto, ingiusto, provocatogli dagli ultimi fascisti locali. Muoiono anche gli amati nonni che lo avevano salvato dalla fame da bambino. I bombardamenti della guerra uccideranno anche l’amata Mariella. Di motivi per restare nel suo paese, Serre, Martino Passannanti non avrà più. Da qui la scelta dell’emigrazione americana, con il finale dell’approdo a Torre del Greco. Senza mai dimenticare la natia “Terre delle Serre” e l’amata Mariella. Il libro è il suo ultimo tributo d’amore, straziante e dolcissimo.