Di Fulvio Creux*
Il primo giorno dell’anno è stato da “sempre” caratterizzato, in musica, dal Concerto che da Vienna è storicamente diffuso in mondovisione. Negli ultimi anni si è aggiunta, almeno per l’Italia, la “concorrenza” del Concerto del Teatro della Fenice di Venezia. In queste righe tenteremo una riflessione su alcuni aspetti che, almeno a noi, stanno particolarmente a cuore. Prima, però, si rende necessaria una premessa: è sempre più invalsa la consuetudine, in ricorrenze particolari, di effettuare Concerti “per…” o ancora Concerti “in occasione di/del/della…”. Questi Concerti, possono essere fatti in due maniere: nella prima si cerca di trovare una attinenza tra la circostanza celebrata e il repertorio eseguito; nella seconda, invece, si propone il programma già in repertorio, anche se privo di alcuna attinenza col tema da celebrare. Ora, sia chiaro il mio pensiero, la serietà e la professionalità di una programmazione artistica dovrebbe rendere spontaneamente d’obbligo il rifarsi alla prima tra queste due possibilità, cosa che troppo sovente, però, non avviene. Venendo al caso del Concerto di Capodanno, decenni di concerti da Vienna hanno portato a identificare questo concerto con i Valzer, le Polke, le Mazurke della musica viennese, tant’è che in molte città d’Italia molti gruppi fanno “Concerti di capodanno” proponendo la più o meno buona imitazione del concerto del Musikverein. Del resto non c’è in questo nessuna contraddizione: la musica degli Strauss & company esprime tutto quel mondo della dorata nobiltà, degli ori e degli specchi della capitale asburgica, portandoci automaticamente (sia pur con una non precisa cronologia) nei tempi della Belle Époque; abbiamo dunque tre fattori (città, epoca, musica) che si sposano mirabilmente in un tutt’uno. Da qui la difficoltà, forse solo da me immaginata (?) per creare in un’altra situazione qualcosa di simile al fenomeno della capitale austriaca, applicandolo alla propria città, nel caso specifico a Venezia. Dunque, se il mondo di Vienna è quello che automaticamente ci rimanda all’epopea filmica della Principessa Sissi, a cosa dovrebbe rimandarci Venezia? Per un musicista la risposta è semplice: ad Albinoni, a Vivaldi e così via, all’Opera del Settecento o a quegli autori (esempio Ermanno Wolf Ferrari) che, operanti nel periodo che ha visto il tramonto del melodramma come grande spettacolo popolare, hanno comunque legato pagine importanti la Goldoni e/o alla città lagunare. Difficile, ovviamente, costruire su questi elementi, di non così grande richiamo mediatico, la reiterazione pluriennale di un Concerto di Capodanno che sia espressione di Venezia così come quello di Vienna lo è di Vienna. La scelta effettuata è stata dunque, da sempre, sostituire al mondo scintillante degli imperatori e dei gran balli di corte, la letteratura lirico melodrammatica. La lirica, il simbolo dell’Italia! La lirica, la forma d’arte che univa l’Italia già prima che l’Italia fosse una! Grande, immensa, la lirica e il suo repertorio, ma attenzione a due cose: la lirica non rappresenta una città (come il Valzer, non per nulla chiamato viennese), ma rappresenta una nazione, il suo popolo; la lirica, non per nulla definita “melodramma” o dramma in musica, raramente esprime quella gaiezza e leggerezza, quella spensieratezza del repertorio in argomento che troviamo oltralpe e che uno si aspetterebbe per il giorno più… “augurale” dell’anno. Già questo basterebbe a rendere improponibile un paragone tra i due mondi. Veniamo adesso al repertorio: nei Concerti di Vienna, pur se monotematici o quasi, a fianco dei soliti cavalli di battaglia si cerca sempre (e quest’anno la cosa è stata ancora più evidente) di inserire qualcosa di nuovo, di particolare, di originale; nuovo che, però (e qui anticipo un giudizio), essendo basato sugli stessi stilemi, sulle stesse caratteristiche e sonorità dei brani, rischia di sembrare sempre uguale. Nei Concerti veneziani (o meglio, nella parte che viene trasmessa, perché nella prima parte si rientra sulla più scontata programmazione sinfonica) si insite sul repertorio melodrammatico, ma con un grosso limite: la quasi totale assenza di ricerca, di proposte nuove che – sia pur anche qui alternate ai soliti cavalli di battaglia – sappiano condurre l’ascoltatore verso quello spirito più leggero e meno drammatico che a un simile giorno si confà. Comodo, direte voi, parlare, ma dare qualche titolo? Mi perdonerete se non li indico, giacché non sono direttore artistico di alcun ente lirico e non ne ho la competenza; ho però il forte sospetto che qualche titolo esista, e non pochi. Con questo spero, senza dilungarmi troppo, di essere riuscito ad esprimere il mio pensiero, che è tanto vero quanto non vero a seconda dell’ottica con cui si guarda ai due Concerti: se si guarda ad essi con lo spirito della “aderenza al tema” non c’è dubbio che Vienna batte Venezia senza possibilità di smentite; se si guarda, invece alla “non monotonia” del Concerto, le cose indubbiamente si ribaltano e il Concerto veneziano ha sicuramente caratteristiche più varie. Caratteristiche che potrebbero andar bene, però, per qualsiasi Concerto (dalla Festa di San Marco alla Festa della Repubblica) durante l’anno. Un’ultima considerazione vorrei ancora fare: durante il Concerto mi sono detto “ma, alla Fenice, hanno finito la musica italiana? Ascoltando Gounod e Bizet, si direbbe di sì”. Sia chiaro che dico questo non per spirito caro ai patrioti, ma per elementari esigenze che si crede debbano essere prese in considerazione: se il Concerto di Vienna è espressione di Vienna, il Concerto di Venezia dovrebbe essere almeno espressione dell’Italia e della sua musica, lasciando a casa per questa circostanza i pur interessanti Gounod e Bizet?
In conclusione con resta che parlare degli interpreti: se a Vienna si conosce unanimemente il livello elevatissimo della Filarmonica, tale da farne una tra le orchestre più blasonate al mondo, c’è da dire che l’Orchestra della Fenice ha suonato perfettamente (a parte un eccesso sonoro dei Tromboni, forse dovuto alla ripresa audio, nel Finale della Farandole), sia nell’insieme che nei passi solistici, fondendosi col preparatissimo Coro in maniera ineccepibile e confermandosi come sempre all’altezza della situazione. E i Direttori?
Daniel Harding ha diretto per come lo conosciamo, ottenendo dall’Orchestra il risultato che esprimeva col gesto. La stessa cosa si può dire per Riccardo Muti, anche se con una riserva, non su di Lui, ma nella mia capacità di comprensione: mi è difficile capire, infatti, quanto anche un sommo direttore possa realmente incidere sul risultato complessivo di una Orchestra di quel livello, specie se impegnata in un repertorio così caratteristico e specifico, dalla stessa conosciuto a menadito.
In questi giorni si leggono sul web molti commenti su questi due Concerti, e i pareri sono spesso discordanti; la cosa è certamente comprensibile e, diciamolo pure, ravviva l’ambiente: ciò che spiace è, però, vedere che questi commenti si spingono il più delle volte in considerazioni che hanno a che fare più con il “tifo” che con un almeno tentato criterio di giudizio critico.
*Già direttore delle bande musicali nazionali della Guardia di Finanza e dell’Esercito