di Olga Chieffi
Il concerto all’alba è, sin dalla sua istituzione, un evento che coinvolge i cinque sensi. Il Belvedere di Villa Rufolo cambierà “fondale” seguendo la musica, fino ad accendersi dei colori dell’alba, svelando l’incontro tra il cielo e il mare, con la costa a far da divina quinta. Sarà l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, la formazione-gioiello di Riccardo Muti, strumento privilegiato di congiunzione tra il mondo accademico e l’attività professionale, dallo spirito dinamico e continuamente rinnovantesi, la protagonista di questo viaggio verso la luce, verso un nuovo inizio, guidata da James Conlon, direttore musicale dell’Opera di Los Angeles. Nella notte incantata di Ravello alle ore 5, il direttore ha scelto un programma monografico, dedicato al Beethoven delle Sinfonie n. 8 e n. 6, per l’appuntamento più accorsato dell’intero cartellone. L’Ottava, con il suo colore un po’ “retrò”, rivela il proprio carattere “umoristico”, unitamente al sorriso beffardo del genio, che qui offre prova del proprio eclettismo. Il primo movimento, Allegro vivace con brio, è una palese esibizione d’arguzia: nessuna introduzione in Adagio precede la immediata esposizione del tema principale, uno sfavillante motivo che lascia balenare Haydn e si incastra in un sarcastico meccanismo di ripetizione. La sorpresa caratterizza il secondo movimento, un Allegretto scherzando. La leggenda vuole che questa pagina sia nata quale canzonatorio omaggio al metronomo, invenzione dell’amico Johann Nepomuk Mälzel. All’ “umorismo” dell’Ottava appartiene anche il ritorno ad Haydn e Mozart evidente, in particolare, nel Tempo di Minuetto e nel Trio centrale, con l’uso dei fiati soli in stile di serenata settecentesca; anche il Finale riprende i rapporti con i finali giocosi di Haydn, sia pure con scatti umorali, estrosità e momenti di raccoglimento. La VI sinfonia è un giro di boa nello svolgimento creativo di Beethoven: è la grande dissolutrice del “patetico”, nel senso che, dopo la Pastorale, le passioni e il dolore non saranno più sentiti nella propria carne, ma contemplati a una certa distanza, come rivissuti nel ricordo. La “Pastorale” ha quale tema il sentimento della Natura, carissimo al compositore, che sin dal 1800 trascorreva regolarmente i mesi estivi nella campagna attorno a Vienna, poiché “nessuno può amare la campagna quanto io l’amo: infatti boschi, alberi e rocce producono davvero quell’eco che l’uomo desidera udire”. In questa sinfonia, tuttavia, Beethoven non si limita a una semplice descrizione della natura, ma si propone lo scopo, come egli stesso scrive, di far sì che essa, grazie alla magia degli strumenti musicali, manifesti solo sentimenti. Immaginiamocela come una passeggiata nella quale si facciano dei cerchi concentrici sempre più ampi e in questo vagare in tondo c’è la scoperta di tutto ciò che la forma teleologica, quella, ad esempio, della Quinta sinfonia, non possiede. La memoria interiorizzata della vita nella Natura è condensata nel «risveglio di gioiose sensazioni» suggerito sin dalla prima frase dei violini, sull’accompagnamento da musette pastorale degli archi gravi, dall’Allegro ma non troppo d’apertura, il primo degli eccezionalmente cinque tempi, tutti altrettanto eccezionalmente corredati di titoli esplicativi. A tale luminosa, distesa felicità inventiva, brulicante di vita, idealizzazione del respiro stesso della Natura – musica tanto «sciolta e libera da tensioni» quanto la Quinta era stata «concentrata e condensata», ha scritto Walter Riezler; «musica che sembra più ascoltare che affermare», Giorgio Pestelli – offrono una sorta di aureola timbrica i legni, in evidenza in tutta la studiatissima partitura. Si presti attenzione anche solo alla coda dell’Andante molto mosso, in cui flauto, oboe e clarinetto propongono l’incanto d’un dialogo idealizzato tra usignolo, quaglia e cucù, voci della natura trasfigurate nella vita dello spirito. Con un’ulteriore trasfigurazione la sinfonia si conclude, quella del canto dei pastori che esprime, con la voce senza parole della musica assoluta, i sentimenti di gioia e gratitudine suscitati nell’animo dalla quiete dopo la tempesta (il temporale, ammirato da Berlioz, è l’unica pagina in modo minore della partitura), quando, scriverà vent’anni più tardi Giacomo Leopardi, pur senza condividere l’estatica contemplazione della Natura, «ogni cor si rallegra». Dopo l’eloquenza delle precedenti opere, la Sesta sembra una sinfonia taciturna, una musica che lascia parlare le cose e sembra più ascoltare che affermare, attraverso quell’elemento discriminante che è appunto il sentimento della natura che diventa bisogno fisico e spirituale, oggi più che mai.