Nicola Russomando
Da anni si dibatte in Italia sul tema del suicidio assistito, almeno dal caso Welby, questione sulla quale ha inciso in modo determinante la Corte costituzionale. Innanzi ai casi di “disobbedienza civile” promossi dal radicale Marco Cappato nell’assistere aspiranti al suicidio in violazione dell’art. 580 del codice penale, “Istigazione o aiuto al suicidio”, la Corte ha introdotto un principio di non punibilità. Infatti, laddove il “suicidio assistito” sia giustificato da una patologia irreversibile dal prevedibile esisto infausto, dalla dipendenza del malato da trattamenti di sussistenza vitale, dalla sua determinazione accertata a porre fine a tali sofferenze fisiche e psicologiche percepite come intollerabili, non è applicabile la sanzione penale della detenzione dai cinque ai dodici anni per quanti ne favoriscono l’esito. Questa lettura dell’art. 580 c.p. introdotta dalla sentenza n. 242/2019 ha trovato ulteriore definizione in una successiva pronuncia della stessa Corte, la n. 135/2024, con la precisazione che il requisito del trattamento di sussistenza vitale è già integrato dalla sola indicazione medica della sua necessità, senza che “il paziente sia tenuto a iniziare il trattamento al solo scopo di poter poi essere aiutato a morire”. Se questa in sintesi è lo stato della disciplina legale in Italia del suicidio assistito, nell’attesa che il disegno di legge presentato dal Governo in materia sia discusso e approvato dal Parlamento, non può non suscitare profondo turbamento l’ultimo dei casi verificatosi, quello di Martina Oppelli di Trieste. A suscitare turbamento non è la vicenda in se stessa, meritevole di tutta la “pietas” nell’accezione latina del termine, ma la ricostruzione che della decisione ha dato l’interessata nell’intervista a Marianna Aprile a LA7 del I agosto. Nel ricostruire il percorso di sofferenza che l’ha indotta ad affrontare il suicidio assistito in una clinica svizzera al culmine del terzo diniego da parte dell’ASL triestina di riconoscerle i requisiti indicatii dalla Consulta, Martina ha individuato con precisione il momento da cui è scaturita la decisione. Il 6 aprile 2023, assistendo televisivamente alla Messa in Coena Domini del Giovedì santo, celebrata da papa Francesco nel carcere minorile di Casal del Marmo, Martina è stata colpita da un’affermazione del pontefice e soprattutto dall’espressione facciale che l’ha accompagnata. Momento che lei ha definito, letteralmente, “aberrante”. Infatti, dopo la lavanda dei piedi contemplata dal rito ed effettuata dal papa a dodici detenuti scelti per l’occasione, Bergoglio avrebbe commentato, con espressione divenuta truce, che “questo è un lavoro da schiavi”. Immediata l’immedesimazione della telespettatrice nelle vesti della “più grande schiavista del mondo”, tanto da chiedersi se fosse più umiliante per “una schiava a pagamento” (la caregiver) lavare i piedi ad un’inferma o per l’inferma pagare perché le si lavassero i piedi a vita. Da qui la sua determinazione di ricorrere al suicidio assistito tanto più perché “abbandonata da una chiesa che non l’ha mai compresa”. Questa vicenda è emblematica di come parole, gesti ed anche espressioni del viso possano essere interpretati e vissuti in modi contrapposti a seconda delle situazioni personali. A rileggere, però, la trascrizione dell’omelia pronunciata a braccio nell’occasione da papa Francesco la sua affermazione è del tutto in linea con l’interpretazione del gesto di Gesù che si fa servo, ovvero schiavo, nel lavare i piedi ai discepoli. Non un atto di disprezzo per un’attività riservata agli schiavi nell’antichità e che pure nel Vangelo di Luca ha una profonda risonanza di conversione come nell’episodio della peccatrice che lava i piedi a Gesù con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Al contrario, una certa espressione facciale di papa Francesco, letta come commento ad una sua frase, è stato il momento che ha coagulato la rottura di ogni esitazione nell’assumere l’estrema decisione del suicidio. Per quanto le espressioni facciali di papa Francesco fossero ispirate spesso a severità, aggravata anche – ed è il caso di ricordarlo- dalle sue condizioni di infermità fisica, è impossibile anche solo ipotizzare un atto di disprezzo da parte sua verso una condizione di minorità sociale o fisica. La personale sofferenza di Martina ha determinato la personale lettura del gesto e del commento del papa senza considerare che la scelta non convenzionale di Bergoglio di celebrare il Giovedì santo in un carcere è stata sempre rivolta a privilegiare l’umanità sofferente in tutte le forme di manifestazione dell’umana sofferenza. Una vera e propria “eterogenesi dei fini” che Francesco non avrebbe mai immaginato. Tuttavia, resta tutto il senso di lacerazione che una vicenda del genere suscita nella coscienza individuale. E come non ricordare lo storico greco Plutarco che, nella ricostruzione delle biografie dei suoi personaggi, dava rilevanza “ad un gesto, ad una parola, e persino ad una battuta”, piuttosto che fatti eclatanti. La differenza sostanziale qui, all’inverso, è nella tragicità di una condizione di solitudine che si interroga sul senso ultimo della vita e che vede nella morte l’unica possibilità di liberazione da una sofferenza percepita come negazione della propria dignità di persona. E a questo risultato può concorrere anche una lettura distorta di fatti esterni.





