di Corradino Pellecchia – Ecco Mario Carotenuto. Tornato ancora una volta nella sala San Lazzaro, nonostante gli acciacchi dei novant’anni passati, stanato dalla solitudine del suo studio. E’ l’atmosfera del Natale vicino. Perché il Natale gli raddoppia il piacere di mescolarsi alla folla in visita al presepe che lui ha dipinto, di registrarne gli umori, la meraviglia, i commenti, di guardare quell’umanità variegata mentre si mette in posa tra le sagome che danno vita a questo teatro vivente, fotografa e si fa fotografare come si fa davanti a un monumento da non perdere, lascia dediche sul libro delle presenze, si congratula con lui se lo riconoscono. Già, cosa rappresenta per lei il Natale? «Mi riporta alle piccole gioie di un’età innocente e spensierata; è il giorno in cui ripenso ai miei genitori, ai miei fratelli, agli amici che non ci sono più, coi quali dividevo le gioie del Natale e che tanto ne abbellivano il ritorno con le testimonianze del loro affetto». Ne ricorda qualcuno in particolare? «A casa mia non c’era l’usanza del cenone, perché mio padre suonava e nei giorni di festa stava sempre fuori. Una volta passai la notte della Vigilia con un mio amico a visitare tutti i presepi del paese. In ogni casa che entravamo ci offrivano dei dolcetti. Mi ritirai all’alba; i miei dormivano ed io da solo misi il Bambinello nella grotta. Ricordo un altro Natale alla mia casa di Altavilla. Le nostre voci non riuscivano a rompere uno strano senso di silenzio e solitudine. Ho trascorso quasi tutta la giornata guardando il fuoco del camino, col desiderio di schizzare il paesaggio al di là della finestra, ma il freddo era pungente anche con il sole e non era prudente mettersi a lavorare fuori della casa». Poi arrivò l’albero. «Nel dopoguerra prese piede l’usanza dell’albero di Natale, che diede alla tradizione un contenuto laico e borghese e fece confinare il vecchio presepe nei solai e nelle cantine. L’albero di Natale divenne così il simbolo di questa nostra epoca plastificata e meccanizzata, che ci allontana sempre di più dall’ineffabile spettacolo della natura e riduce ogni manifestazione a spettacolo gonfio di appariscenza e gusto smodato della ricchezza». Come nasce il presepe dipinto? Controtendenza, nel 1982 sottoposi l’idea del presepe al parroco della cattedrale don Giovanni Toriello il quale, entusiasta, mi mise a disposizione la sala san Lazzaro, con la benevole approvazione di monsignor Gaetano Pollio. Ma non avrei potuto realizzare questo mio progetto senza l’aiuto dello scenografo Peppe Natella, di Salvatore Acconciagioco e dei giovani della Bottega». Quale è la sua caratteristica? «Nel mio presepe c’è tutto lo spirito del Natale e, mi creda, non è stato facile ricrearlo. C’è la vita, l’uomo comune, il racconto, la strada, il cammino, la scoperta. Ho creato uno spazio sacro su cui camminare e sentirsi elevati, in cui ognuno può far parte di una storia e di un credo». Inizialmente alcuni religiosi avevano dei pregiudizi verso il suo presepe; come lo spiega? «Non erano preclusioni di carattere artistico, c’era solo diffidenza per un presepe fatto da un laico; ma penso che col tempo questa diffidenza sia andata diradandosi». Cosa ha rappresentato il presepe nella sua pittura? «E’ un momento di riflessione su me stesso, sul realismo, sui contenuti. Dopo la caduta di ideali sociali e politici, l’unico rifugio è tornare alle radici. Ogni volta che ho avuto una crisi sono tornato allo studio della realtà, al mondo che mi circonda. Nel 1982, quando ho iniziato il presepe, si concludeva un periodo, durato dieci anni, di riflessioni sulla religione». Lei ha dipinto spesso oggetti religiosi; vi è qualche motivazione particolare che l’ha spinto a realizzare quelle tele? «Sono cresciuto e sono stato educato in un contesto religioso; ho frequentato il liceo all’Annunziata di Cava, retto dai Padri Vocazionisti, e nel momento in cui inizio un lavoro quegli insegnamenti affiorano a livello inconscio». Lei colleziona paramenti religiosi e li fa galleggiare nei cieli di molti suoi quadri. E’ forse un modo per registrare il vuoto, il calo di fede del formalismo religioso? «Non c’è nessuna polemica. Ho trovato quei panni sacri in una cassapanca e li ho spesso dipinti elevandoli al simbolo che sono. Il cielo è l’unico posto dove potevano stare». Qual è il quadro di più intensa religiosità che ha dipinto? «La Via Crucis che ho dipinto nella chiesa di Gesù Redentore a Mercatello». Che cosa è per lei la fede? «La fede è una cosa misteriosa, è un atto poetico, che ti fa uscire fuori dalla realtà; è un’illuminazione, non soggetta alla ragione». Chi è l’uomo di fede? «Chi crede e uniforma le sue azioni ai precetti religiosi. Sono i fatti che contano, non le vuote formalità». Esiste un modo laico di aver fede? «Nel rispettare il prossimo ed aiutarlo, qualora si trovi in difficoltà». C’è un rapporto tra fede e amore? «Sono la stessa cosa. Non si può essere fedeli a qualcuno o a un principio senza un investimento di cuore». Esiste una fede fondata sulla ragione? «Per chi crede la fede è sempre ragionevole. Come Giobbe dovremmo imparare a persistere nella fede, anche quando la ragione non ne risulta appagata». La scienza ci offrirà tutta la verità, la tecnica ci risolverà tutti i problemi? «Non lo devono fare; se si leva quel poco di mistero che c’è nella vita, non rimane niente. E, poi, la nostra sapienza è come un granellino di sabbia nel deserto». Come vede la “rivoluzione” di Papa Francesco? «Questo Papa ha portato un’aria nuova. Ha sconvolto vecchie abitudini curiali, privilegi, certezze. Sta cercando di riportare la Chiesa al suo spirito originario, richiamando il messaggio francescano. E’ un uomo che non ha preconcetti, capisce la realtà così com’è, non fa il santo, si mette dalla parte nostra, facendosi prima lui esempio di umiltà e carità. Non rischia di essere strumentalizzato? Non bisogna meravigliarsi, è successo anche con San Francesco. E’ accaduto ogni volta che la Chiesa ha avuto delle aperture. I cattolici più conservatori lo accusano di essere un papa comunista. Avevano detto lo stesso anche di Papa Giovanni. Se stare dalla parte dei poveri, dei diseredati, degli esclusi, dei peccatori, degli ultimi significa essere comunisti, allora papa Francesco lo è. Non dimentichiamo che gli angeli hanno portato la Buona Novella ai pastori, che erano considerati i paria d’Israele. Una persona che ha incontrato nella sua vita e che più si avvicina al messaggio evangelico? Sono indeciso fra don Giovanni Toriello e don Salvatore Polverino, il mio padre spirituale; sono le persone più belle ed elevate che ho incontrato. Di don Giovanni ricordo l’umiltà, la semplicità e la forza d’animo. Quando era convinto di una cosa, non aveva paura di niente. Un momento stupendo era quando chiudeva le porte del duomo: sembrava un angelo. Quando Giovanni Paolo II venne in visita a Salerno, si vergognava di accompagnarlo nella cripta; fui io ad incoraggiarlo. Era l’unica persona che quando non mi vedeva per un giorno, veniva sotto casa a chiedere come stavo. Ricordo un’indimenticabile Vigilia nel rione Ferrovieri. Dopo la processione e la deposizione del Bambino nella grotta, tenne un memorabile discorso che toccò il cuore di tutti gli astanti. Come trascorre la sua giornata? Scrivo con metodicità ogni mattina, disegno, leggo molto. I miei autori preferiti sono Kafka, Kundera, Gide, gli scrittori russi; leggo di tutto, sono molto curioso. Ultimamente ho riletto tutto Leopardi. In alcune pagine dello Zibaldone si evince un anelito divino; anche quando parla dell’amore usa un linguaggio religioso. Anche se per lui Dio non esiste come pensiero assoluto, ma in quanto infinita possibilità». Si è mai stancato della vita? «Mai. Ci sono momenti di crisi, ma poi si va avanti. Ho trascorso mesi senza fare niente, senza riflettere; l’importante però è reagire. Ogni volta che si riflette sull’essenza della vita capita questo, anche quando la vita sembra averci dato tutto». Che cos’è la vecchiaia? «E’ il naturale svolgimento della vita. Bisogna vivere con il giusto distacco, il che non è facile; essere pronti a lasciare in qualsiasi momento». Zeffirelli, che da poco ha compiuto novant’anni, dice che è l’attesa di una partenza. Si comincia a guardare l’orologio con il conto alla rovescia. «Che stupidaggine. Bisogna vivere in armonia con la propria età, tenere acceso ogni giorno il motore del corpo e dello spirito. Anche a novant’anni si può imparare qualcosa di nuovo. Altrimenti si rischia di fare la fine di Bertoldo che piangeva quando usciva il sole perché pensava che poi, fatalmente, sarebbero venuti il gelo e la pioggia». Dovesse fare un bilancio della sua vita? «Dalla vita ho avuto tanto; ma nessuno mi ha regalato niente. Ho lottato per avere quello che volevo; non mi sono arreso mai. Dovrebbero capirlo i giovani che devono affrontare una mischia più crudele della nostra». Se dovesse dare un colore al nostro tempo, quale sceglierebbe? «Altri direbbero il nero, per questa grande incertezza che grava sul nostro futuro. Per me il verde, in fondo sono ottimista». Come ha passato il Natale? In compagnia dei miei nipoti Mario, Amedeo e del mio pronipote Ottavio. Maria, la nostra collaboratrice ucraina, cucinerà per noi un pranzo tradizionale, natalizio. Il pomeriggio nella quiete del mio studio, lontano dal frastuono della festa, per seguire l’invito di Papa Francesco a riscoprire il silenzio, come momento ideale per cogliere la musicalità del linguaggio con il quale il Signore ci parla. Si sente di fare un augurio ai lettori di Cronache per l’anno nuovo? «Che realizzino una parte dei loro sogni. Tutti siamo in credito con la vita, anche di un amore, beato chi ce l’ha».
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