di Olga Chieffi
Sarà grande festa al teatro Verdi e in città per celebrare degnamente i 150 anni del massimo Il 15 aprile del 1872 il sipario si levò sul Rigoletto, tra gli stucchi d’oro e il blu lapislazzuli del cielo, un piccolo teatro San Carlo firmato dagli architetti Antonio D’Amora e Giuseppe Manichini, con i decori realizzati da Gaetano D’Agostino, affiancato dalle firme più prestigiose del mondo artistico partenopeo e, naturalmente, questo sarà il titolo che inaugurerà, in maggio il cartellone. Sussurri dei melomani in un preludio alla conferenza di presentazione dell’intero cartellone con il Maestro Daniel Oren e il suo braccio destro il Maestro Antonio Marzullo, che si svolgerà nel foyeur del Verdi, martedì 5 aprile alle 10,30, ci han fatto giungere all’orecchio anche gli altri probabili titoli che ci accompagneranno sino alla fine dell’anno. “La melodia e il linguaggio si appartengono vicendevolmente, rifiuto l’idea che possa esistere una musica pura”. Questo l’assunto di Carl Orff, del quale verrà eseguita la “cantata drammatica” “Carmina Burana” datata 1936, un Medioevo sospetto che si presenta musicalmente con il violino diabolico dell’Histoire du soldat di Stravinskij, o il grottesco della Marcia dell’Amore delle tre melarance di Prokofiev: una caricatura, ma seria, un’ironia, ma piena d’ammirazione, un gioco, ma carico d’impegno. Finalmente, torna anche la Cenerentola di Gioachino Rossini, con Don Ramiro principe di Salerno, che mette i sigilli sulla sua avventura ne regno dell’opera buffa, confermando la demoniaca rivoluzione operata nei riguardi della sua struttura e dei suoi contenuti, così come erano stati ereditati dal modello settecentesco. Interessanti stagioni si susseguirono al teatro Verdi, in particolare nella ferace Salerno Belle Epoque, con i debutti su tutti di Enrico Caruso e del baritono Titta Ruffo, e ancora, l’esecuzione dell’Adriana Lecouvreur alla presenza dell’autore Francesco Cilea. Sul palcoscenico del massimo, infatti, sarà rappresentata anche quest’opera da “primadonna”, in cui Cilea riversa il meglio della propria fantasia creatrice, accompagnando l’intricata vicenda di amori segreti, sussurri mondani e bieche vendette femminili, con una musica di estenuata elegiache trova i suoi accenti più vividi nel ritratto della protagonista e in quello, antagonistico, della principessa di Bouillon. Giungerà poi, la principessa di gelo, quell’opera chic, costellata di inquietitudini linguistiche e psicanalitiche, ma, alfine, legata anima e corpo, nella sua audace crosta impressionista, a un autentico retour à l’antique, che è la Turandot di un Giacomo Puccini. Circondata da un cerchio algido che svela la morsa del futuro, la voluttà o la paura (o impossibilità) di viverci dentro, arrampicata di continuo sulle pareti di sesto grado di una tensione intervallare non meno proterva, questa dispotica soubrette precorre, almeno per l’apparenza grafica, tempi non lontani in cui il grido solitario dell’uccello sopranile sarebbe stato non più idoneo a cantar fiabe, ma a misurare la temperatura del Nulla. Ed ecco anche il più famoso e amato tra i barbintonsori d’ogni tempo, il Figaro di Gioachino Rossini, quel barbiere che fa anche il chirurgo, il botanico, lo speziale, il veterinario e soprattutto il sensale, attività in cui è il più abile della città di Siviglia, un vero ciclone meridionale che ammucchia in fretta parole su parole per avere sempre ragione, simbolo dell’elemento ludico, inteso come sospensione del “tempo”, o meglio il suo smisurato allargamento in seno ad episodi dove è la musica sola ad imporre la propria forma ed il proprio ritmo interiore. Rientra in teatro anche Madame Butterfly, quel ponte tra Oriente ed Occidente, volutamente esotica, una tragedia, consumata ai danni di un’ingenua giapponesina, perfida, sadica, una violenza carnale con la tecnica della civiltà, dove la barbarie non è riconoscibile facilmente, perché rovesciata nei suoi termini, che si regge sull’inganno, e che mette in rapporto strettissimo la musica occidentale del tardo Ottocento (brani d’uso e dotti, dall’inno degli Stati Uniti al Tristano di Wagner, al ben noto Massenet, a reminiscenze di Bohème e Tosca), con richiami alla tradizione giapponese, gremita di scale pentatoniche. Sei titoli, forse, per non più di due repliche ciascuno, una pari stagione concertistica che principierà il 7 maggio nella chiesa di San Giorgio e la promessa di una produzione coreutica originale, affidata a quanti supereranno le audizioni, preludio ad un corpo di ballo e il sogno di un’accademia, del massimo cittadino, che impreziosirà il cartellone.