di Carmine Landi
BATTIPAGLIA/EBOLI. Il caporalato che ammazza l’agricoltura.
«Le irregolarità danneggiano le aziende sane»: queste le dichiarazioni di Vittorio Sangiorgio, presidente di Coldiretti Salerno, riportate ieri tra le pagine di questo quotidiano.
L’allarme lanciato dal numero uno provinciale della confederazione italiana dei coltivatori diretti contribuisce vigorosamente a volgere i riflettori su un mondo, quello dell’agricoltura della Piana del Sele e dei Picentini, che con eccessiva frequenza è stato immolato sugli altari della cronaca, brutalmente dilaniato dai coltellacci del caporalato e del bracciantato a nero.
Truffe ai danni dello Stato, che di frequente si ritrova a dover sborsare quattrini dietro prebende e indennità erogate a beneficio di lavoratori fasulli, ossia migliaia di italiani che vengono assunti da alcune imprese avide di risparmi e di iniqui finanziamenti.
Gli abitanti della zona vengono assunti per 78 giornate lavorative – sì da riuscire a maturare i requisiti per le prebende – , ma a lavorare neppure ci vanno. Al posto loro, immigrati agli ordini di caporali. E quelle indennità statali vengono ripartite tra lavoratori, proprietari e organizzazioni criminose.
Nel frattempo, tuttavia, tanti altri onesti imprenditori terrieri continuano a lavorare alla luce del sole. E allora, le truffe sono pure ai danni delle aziende sane. Stando ai dati della Coldiretti, infatti, sono 61 euro i soldi che, in media, una società agricola sborsa per un bracciante non specializzato: 50 euro al dì per la paga e 11 euro per i contributi.
Ed è qui che si crea il grande gap: in media, un imprenditore che si serve dei caporali paga meno della metà. Tre euro al cassone, come abbiamo scritto ieri, per cui un bracciante, che in una giornata riempie tra i 7 e e i 10 cassoni, può incassare una somma che varia tra i 21 e i 30 euro giornalieri. E il guardagno, è risaputo, è inferiore, giacché bisogna versare al caporale i quattrini per pagarsi il trasporto e il 10% della paga. Di contributi, ovviamente, neppure l’ombra, per cui chi lavora onestamente si ritrova a dover subire la concorrenza di produttori che possono vendere frutta e ortaggi con un ribasso spaventoso – c’è chi riesce addirittura a dar via i pomodori a 10 centesimi al chilo – e tantissimi grossisti, naturalmente, preferiscono pagar di meno e rendersi complici della grande truffa.
Danni d’immagine. Nella Piana del Sele, ad esempio, le aziende della quarta gamma, non potrebbero mai ricorrere al caporalato, giacché sono troppo elevati gli standard qualitativi imposti dai grandi brand. Spesso, però, nel calderone dell’opinione pubblica, ci finiscono tutte le società. Ma le più truffaldine, di consueto, sono quelle che non hanno neppure un fascicolo aziendale e che, in fatto di carte, forse non hanno neppure quelle intestate.
Proprio per questo, la Coldiretti sta portando avanti da anni una battaglia tesa a stimolare la regolarizzazione dei braccianti agricoli, cercando di far capire che anche l’onestà ha i suoi vantaggi: la serenità di far le cose in regola, l’opportunità, per i dipendenti, d’usufruire della disoccupazione dopo le 151 giornate lavorative e i rilevanti sgravi fiscali sull’Irap.
Ma nel 2015 avanti Lincoln, di cui si scriveva ieri, l’onestà, purtroppo, è fuori moda.