Cantico per il mondo della fine - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Cantico per il mondo della fine

Cantico per il mondo della fine

 

Bagno di folla per Roberto Latini con la sua interpretazione del “Cantico dei Cantici” che ha inaugurato la III stagione di Mutaverso Teatro

 

Di OLGA CHIEFFI

“Che peccato!” così termina l’intensa performance di Roberto Latini, il quale ha offerto al pubblico della serata inaugurale, che ha letteralmente affollato il centro Sociale “R.Cantarella” di Salerno, sede della III stagione di Mutaverso Teatro, firmata da Vincenzo Albano, la sua particolare rilettura del “Cantico dei Cantici”. Umano e divino tendono entrambi ad assumere posizione dominante nella mente umana e, dunque, sono inaccordabili se non a condizione di rinunciare alla loro dominanza, per consentire il varco, attraverso una loro comunione, a possibilità d’esperienza più ampie dell’umano. Esperienza non vagheggiata, ma imposta dall’essere il tempo umano alla sua fine. Ne viene una visione di avvicinamento ondoso, di contiguità instabile, di instabile fusione che ha, tra l’altro, la virtù di far ribalenare il primitivo contatto cosmologico dell’Uomo, perduto in latebre temporali. Queste latebre temporali ora girano on air, attraverso spezzoni di brani, loop vocali, interruzioni, silenzi, distorsioni, e Roberto le avverte girare su loro stesse, e forse riportare i primordi sotto i nostri occhi, le prime nascite, l’amore biblico del Cantico, i primi uomini sotto gli occhi dell’uomo della fine. Viene incontro in questo compito il verso immortale e universale del Cantico, nella sua voce e nei suoi silenzi l’ “infinito eccesso” di questa parola da intendere anche come una sorta di appello a far rinascere il kepos che vi è racchiuso, unitamente all’uomo, oggi entrambi “malati”, alla “fine”. La pianta in palcoscenico, simbolo, appunto del giardino, dell’albero della vita, viene strapazzata dal senso di onnipotenza dell’Uomo, per poi restare inesorabilmente a terra, riversa, abbattuta, così come il protagonista il fascinoso Roberto dj, finemente supportato da Gianluca Misiti per i suoni e Max Mugnai per le luci, alla fine getta la maschera e la parrucca, rivelando presumibilmente gli effetti, magari, di una chemioterapia. Il giardino e il grembo, l’orto, il recinto dell’amore e la fonte della vita: il concetto di fecondità, fertilità, creatività, vita desiderio del luogo felice risiede lì, la sua idea rivela contenuti vitali che esprimono desideri e speranze maturati in questo spazio e ne costituisce il simbolo vivo. “La nostra salvezza è la morte, ma non questa”, scrive Franz Kafka nel 1918. Il Cantico secondo Latini mi rimanda all’ultima raccolta di versi di Marco Amendolara “Il corpo e l’orto” (edizioni La Vita Felice Milano) che contengono la sorpresa del rifiuto del poeta, l’amaro stupore che il mondo fosse diverso e non potesse seguirlo in un discorso per lui così felicemente ovvio, perché immediatamente e unicamente coincidente con la vita. Ne’ “Il corpo e l’orto”, si rivela il reale contenuto della passione di Marco Amendolara, il suo indisciplinato eros, poiché come nel Cantico, tutto il volume è un florilegio di versi d’amore. Gioia, joie, che è in connessione con gaudium, e che viene da getheo (gioisco), si compone in ogni caso del Ghe della terra. Ecco allora che l’umano, arrivato in fondo alla sua via, dovrebbe uscir fuori, concludere il viaggio, saltar via dal “mezzo” o dalla “corda”(F. Kafka), e se il mezzo è “la fine” dell’umano, saltar via anche dalla fine. Amendolara, con i suoi versi, ci comunica di aver messo le ali, di aver appreso le ali, per svoltare verso la gioia, andando incontro a Ghe, liberandosi del suo corpo, riaccendendo il romanzo, un nuovo romanzo, rifiutando di tenersi aggrappato alla corda, ai linguaggi, al vedere e al non voler vedere, all’accecarsi, all’assordarsi, al cadere e ricadere sempre nello stesso posto, riconquistando l’agognato mistero del primordiale, l’umano Latini, dopo aver contemplato e sperato in tutte le relazioni possibili ed impossibili d’amore, ci lascia con un indeciso e attonito “Che peccato!”.