Successo di pubblico per il gran finale della LXVIII edizione del Ravello Festival, sigillato dall’ “inumano” pianista statunitense protagonista di una eterogenea e colta performance
Di Olga Chieffi
Chiunque abbia familiarità con il pianista americano Brad Mehldau potrebbe contestarlo. Da quando è emerso all’inizio degli anni ’90, ha lavorato in dozzine di ambienti diversi: oltre ad album jazz esplorativi con il suo trio ortodosso, ci sono stati recital solisti, colonne sonore di film, duetti con cantanti d’opera, addirittura un album con un virtuoso del mandolino, progetti di fusion con l’ elettronica, interpretazioni del repertorio classico e collaborazioni con numerose leggende del jazz, spaziando in un repertorio che comprende di tutto, dai lieder di Schumann, all’amato Bach, alle canzoni di Sufjan Stevens e Radiohead. Tutto questo ha preso vita nel concerto che domenica sera ha sigillato la stellare LXVIII edizione del Festival di Ravello, che per uno strano paradosso, per quanto segnata dal lockdown, in particolare nella logistica, non lo è stata certo riguardo i protagonisti di un cartellone, che quest’anno, grazie ai buoni offici e alla fiducia nel direttore artistico Alessio Vlad, ha salutato tre illustri debutti, quali quello di Riccardo Muti, Cecilia Bartoli e, appunto, Brad Mehldau. Il pianista statunitense si è presentato in pubblico in abiti da cowboy, per inaugurare un originale viaggio, in cui ha espresso per intero il suo background musicale. Nella prima parte abbiamo riconosciuto brani tratti dai suoi ultimi lavori “Seymour Reads the Constitution” con il Brad Mehldau Trio, e “Finding Gabriel”, un progetto in cui nel quale Mehldau fonde diversi stili in dieci brani ispirati al Vecchio Testamento, un percorso narrativo mirato, con una logica priva di contraddizioni, di una cerebrale complessità strutturale, anche se in qualche scelta abbiamo attraversato e letto l’universo minimalista attraverso quel dialogo furioso tra le due mani, attraverso le quali è passata l’intera storia di questo genere. Mehldau ha proposto al pubblico ravellese composizioni originali e rielaborate, in un linguaggio che non ci ha fatto ritrovare in certa atonalità, né in manifestazioni sconnesse di virtuosismo, riuscendo così, a combinare quadri di estrema modernità con il linguaggio della tradizione, ma realizzato in modo da slegarlo dal periodo storico in cui è stato messo a punto per collocarlo come linguaggio dei nostri tempi, coerente e relativamente innovativo. Mehldau è sicuramente uno dei pianisti più importanti del jazz contemporaneo, con una profonda conoscenza dell’idioma jazzistico e la capacità di includere nella sua musica anche elementi estranei al jazz ricavandone nuovi stimoli. Il suo limite sta nell’approccio eccessivamente intellettuale, troppo ragionato e controllato, che gli impedisce di lasciarsi andare con la musica, mancando di provocare un vero coinvolgimento a livello emotivo. Mehldau dà la sensazione di pesare e calcolare ogni nota che suona evitando di caricarla di contenuti emozionali. Una sensazione che, naturalmente, non è stato così fortemente avvertito nella seconda parte della serata dedicata ai Beatles, ai Radiohead e David Bowie, cui ha dato grande importanza all’elemento narrativo, un raccontare, senza punti di attrazione, mai certezze di sintassi narrative, ma una logica quella del tertium, al di qua e al di là di ogni opposizione, simbolo di una ricerca che lui svolge senza sosta, in ogni suo brano in ogni concerto, una storia che ha sempre un inizio e una fine, e resta sempre un viaggio verso un luogo sconosciuto che in fondo è la sfida del jazz.