“Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”. Il meno noto Robert Capa scrittore. Quando fu scattata questa immagine a incuriosire il fotografo non era stato tanto l’uomo, in attesa di un improbabile passaggio, bensì la distanza impressa sul cartello stradale. Egli si trovava al bivio di via Torrione e dava le spalle al sottopasso ferroviario. Era circa mezzogiorno del 12 settembre 1943 in una Salerno deserta in cui era in corso l’Operation Avalance, il fotografo neppure immaginava che nelle stesse ore a Campo Imperatore gli uomini del generale Student stavano liberando Mussolini, dividendo gli italiani in due fazioni contrapposte. Il militare italiano, sbandato dopo l’armistizio, con quel cartello diventò l’immagine efficace per spiegare il dilemma in cui l’Italia era precipitata. Quale direzione prendere? Verso nord, idealmente andare con nazisti e fascisti o verso sud con il Re Vittorio Emanuele III e gli angloamericani? Questo suo scatto nel dopo guerra entrò nei libri italiani di storia a mostrare il dubbio di quei giorni. Certamente il fotografo aveva in mente ben altro, forse scattò la foto solo per ricordare a se stesso che era giunto a metà strada di quella sua faticosa giornata. All’alba di quel giorno, quando dall’ora X del 9 settembre ben settantadue ne erano già passate da inizio dello sbarco, lui con alcuni corrispondenti di stampa USA, in divisa militare, era sceso dal mezzo anfibio che li aveva sbarcati su una spiaggia del settore blu assegnato agli americani. Lui era lo stesso “paracadutista aggregato all’82ª Airborne” che tre giorni prima a Licata stava sugli aerei pronti a lanciare un gruppo di parà sulla capitale. Era il reporter in attesa del decollo che già si prefigurava la prima pagina di Life, il tabloid di cui era inviato, che annunziava al mondo intero la liberazione di Roma dai nazisti; Magari con un suo scatto “da vicino” a documentare l’esclusiva. Sarebbe stato il più grande scoop della guerra, invece i motori di quegli aerei furono fermati e l’operazione annullata. Sul bagnasciuga della spiaggia a sinistra del Sele, nella zona blu che nello scacchiere delle operazioni da sbarco era stata assegnata agli americani, il reporter scese a terra che aveva un diavolo per capello. Si sentiva il più scarso degli inviati di guerra che arrivava sul posto tre giorni dopo i fatti. Tutti i giornalisti, sbarcati con le prime ondate di sbarco, avevano già inviato decine di articoli e foto dell’invasione di “Salerno bay”. Quello, peraltro non era stato il primo contrattempo patito, qualcosa di simile l’era già successo in Sicilia. Al suo primo lancio con il paracadute, il vento li aveva portati lontano dall’obiettivo tanto che i paracadutisti scesero lontano dall’epicentro della battaglia. In aggiunta alle disavventure collettive egli nell’atterrare era rimasto impigliato tra gli alberi, fortuna volle che prima dei nemici fossero i compagni di lancio a tirarlo a terra. A luglio per lui documentare Troina non fu la stessa cosa della liberazione di Palermo. Sfortuna o coincidenze negative per scusanti valeva per gli altri, lui, che già nel 1938 il Picture Post aveva definito “il più grande fotografo di guerra del mondo” pativa le circostanze avverse come fallimenti cui rimediare quanto prima. Il gruppetto di giornalisti dalla spiaggia fu accompagnato nella sala stampa, approntata dentro una fattoria della piana. Questa era posta a un miglio dalla costa e a sei dalla linea del fronte. In sala stampa i resoconti delle operazioni erano filtrati dai vertici militari prima di essere divulgati alla stampa. Una gestione dell’informazione che gli procurava l’orticaria. Poco impiegò a informarsi che la postazione americana più avanzata verso Napoli erano i Ranger comandate dal Ten. Col. Derby, che conosceva di fama. I Ranger, supportati proprio dai paracadutisti dell’82ª Airborne, erano le truppe in grado di arrivare primi sulle falde del Vesuvio. I soldati che si stavano aprendo la strada verso il valico di Chiunzi erano quelli che certo avrebbero liberato Napoli dai tedeschi. Forte dei suoi accrediti di aggregato 82ªAirborne decise di dirigersi verso Maiori. Si era perso i primi assalti ma sarebbe stato il primo reporter a documentare Napoli liberata dagli americani, magari fotografando il generale Clark che sfilava in piazza Plebiscito. Con tale progetto mosse da solo in direzione di Maiori, consapevole di dover attraversare tutti i settori, dal Sele a Vietri tenuti dalle truppe di sua Maestà. Adesso, giunto quasi in città, quel cartello gli ricordava che aveva fatto già molto per arrivare alla meta prefissata. Quel fotografo, con contratto Life in tasca, era Endre Ernő Friedmann. Il più grande fotografo ungherese, nato a Budapest per poi essere il profugo giramondo che dal 1936 al 1956 documentò da fotoreporter tutti gli scenari di guerra. Il famoso reporter già conosciuto in occidente con il nome di Robert Capa, raggiunse la sera stessa Maiori e in Costiera Amalfitana, resto in prima linea tutto il tempo in trepida attesa della sospirata avanzata verso Napoli. Quella sera inviò il reportage sull’ospedale americano allestito nella chiesa di San Domenico a Maiori e nei giorni seguenti, documentò con estrema puntualità, dovizia di particolari e foto gli scontri di Fort Schuster, una bettola o poco più, posta sul valico di Chiunzi aspramente contesa. Scatti da lui inviati che gli valsero paginate su Life.
Giuseppe MdL NappoGruppo Scuola Maestri del Lavoro
Del Consolato
provinciale di Salerno
(continua…)