di Clemente Ultimo
Sostenibilità. È questa la parola intorno a cui ruota l’intero progetto – ma si potrebbe tranquillamente scrivere la visione – di Esagoni, il laboratorio sartoriale che da quasi un paio d’anni opera nel cuore del centro storico, in via Botteghelle. Sostenibilità e cura artigianale nella produzione di pezzi unici o serie limitatissime, caratteristica della bottega messa su da Daniela Baldi. Una vera e propria scommessa si potrebbe definire quella di Daniela, nata in uno dei momenti più difficili della crisi pandemica. «Fino al giugno del 2020 – dice – avevamo una piccola fabbrica tessile, impegnata prevalentemente nella realizzazione di divise sportive e costumi di scena. Questa attività, però, ha risentito in maniera determinante dei successivi blocchi delle attività imposte dai lockdown che si sono succeduti nelle fasi più acute della pandemia, costringendoci a prendere la difficile decisione di chiudere. In quel momento valutammo che prima di un paio di anni la situazione non si sarebbe normalizzata e noi non avremmo avuto le risorse per reggere, considerato che avevamo da poco effettuato una serie di investimenti sui macchinari e sul personale per dare una spinta all’azienda». Da questa chiusura, però, prende avvio un’altra storia, caratterizzata da un impegno ancora più forte per l’adozione di metodi di produzione a basso impatto. «Sì, chiusa l’azienda abbiamo deciso di aprire una bottega di artigianato sostenibile: Esagoni. Diciamo che il passaggio dalla fabbrica al laboratorio non è stato difficile, considerato che già in precedenza la produzione di costumi di scena e da gara comportava una grande attenzione al dettaglio, una cura per i particolari propria della produzione artigianale». Che vuol dire in concreto dare vita ad un’attività sostenibile? «Nel nostro caso significa in primo luogo rifiutare la logica della fast fashion (i capi di abbigliamento prodotti in grande quantità e venduti a basso costo, nda), un sistema produttivo dal fortissimo impatto ambientale: basti pensare che per realizzare una T-shirt venduta a pochi euro occorrono quasi tremila litri di acqua. Noi, invece, puntiamo a realizzare prodotti unici o in piccolissime serie, al massimo tre esemplari, recuperando i tessuti considerati scarti di produzione. Siamo partiti proprio recuperando parte del magazzino dell’azienda. Stiamo anche pensando di dedicarci alla rigenerazione di prodotti tessili già esistenti, ma questa è una sfida molto impegnativa, pertanto ci riserviamo un altro momento di riflessione. Tengo a sottolineare che è diverso anche il modo di lavorare, la nostra è una modalità più lenta, che ci consente di concentrarci sui particolari, si tratti di ricami o tessuti dipinti. Cosa evidentemente molto apprezzata, considerato che ci ha consentito di diventare un punto di riferimento per molti: il passaparola funziona». Il recupero, però, non si limita ai materiali: cos’altro avete “ritrovato” grazie alla nascita della bottega artigianale? «Io sono un’appassionata di costume, in questi mesi ho avuto modo di riscoprire e proporre ai nostri clienti vecchi modelli e stili, devo dire con un buon apprezzamento. Ad esempio abbiamo realizzato delle fasce per capelli ispirate a modelli degli anni ’50, costumi in cotone e vestitini da bimba di taglio vintage, ma anche turbanti in stile anni ’70. E poi una vera e propria chicca: la classica bambola di pezza. Insomma, potremmo dire che cerchiamo di guardare indietro per guardare avanti».