Rino Mele
Lelio Schiavone è stato un gallerista anomalo, quasi proiezione di uno dei maggiori poeti italiani: fu lo stesso Alfonso Gatto a dare il nome “Il Catalogo” alla galleria d’arte che Lelio ha curato con critica intelligenza, senza mai scordarsi dell’aspetto devozionale di quello spazio, in una città sempre più distratta e senza memoria. Un Ulisside è stato Gatto, s’allontanava da Salerno per respirarne la lontananza e vi ritornava appena poteva per meglio fuggirne. Qui, a Salerno, s’era formato al Catalogo un gruppo d’intellettuali, che l’avevano eletto a loro guida. E l’aspettavano, e dicevano i suoi versi a memoria meglio di lui che li aveva scritti. Quella stagione, tra poesia e pittura, come una costruzione onirica il tempo l’ha poi sgretolata, allontanata, le ha cambiato il colore, il passato, proprio come la rosa de “La forza degli occhi”, del 1954. Era la felicità, di quei cinque intellettuali e un pittore, intorno a Gatto, ad aspettarlo anche quando non poteva arrivare: ma ecco, infine arriva, sa di non essere l’oracolo ma finge pause estreme prima di dire un verso, fa l’attore dell’Erebo, come solo i poeti sanno per gioco. Intanto, in quella galleria, passa lo stupore delle opere dei pittori che hanno fatto la storia del nostro secolo, quelli di cui ti scordi il nome e i grandi: Sironi, Casorati, Fiume, Cantatore, Achille Funi, Aligi Sassu, Renzo Vespignani, Guttuso, De Chirico, il divino Savinio, Carrà, e ancora Quarta, Lista, Longo, Vecchio, Risi, Ableo, Petrizzi, e altri nomi come ombre chiare. Cosa dice la rosa di Gatto di cui parlavo prima? Ricordiamone l’improvvisa luce: “Di sé rossa nel verde alza la rosa, / rosa di macchia fulgida la rosa / rossa d’azzurro, viola d’acqua nera”. In quel piccolo rettangolo del “Catalogo”, Gatto finalmente arrivava, poi tornava inaspettatamente a Milano su un treno che sembrava, di notte, una nave. Ma, ora, se potesse venire, non riconoscerebbe Salerno, diventata così ubbidiente, una città senza resurrezione. Se tornasse ora, crederebbe d’aver sbagliato treno. Ieri Lelio è morto e la città – ancora di più – stasera s’allontana da se stessa: come fa sempre, nel disorientamento dei vivi, la morte mentre rende inutile la memoria. Lelio Schiavone sapeva d’essere il custode di un tempietto: in quel poco spazio (quasi ci fossero le colonne, il bianco nitido dei marmi) Apollo s’era più volte fermato a fumare, e le Muse avevano tentato un canto senza strumenti mentre, col volto nascosto, erano apparse disparendo fuggevoli divinità.





