di Vito Pinto
Cinquant’anni fa a Torino moriva Franco Antonicelli, uomo di vasta cultura, saggista, poeta, senatore della Repubblica, che dal luglio 1935, per otto mesi, fu ad Agropoli quale confinato politico del regime fascista da lui sempre avversato. Si laureò all’Università di Torino prima in lettere e poi in giurisprudenza, pensando di intraprendere la carriera diplomatica.
Durante i suoi studi conobbe molti esponenti dell’intellettualità del tempo, come Augusto Monti, Lalla Romano, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Ludovico Geymonat. Nel 1926 ritornò al liceo D’Azeglio di Torino, dove aveva studiato, quale insegnante d’Italiano ed entrò in contatto con il gruppo riunito intorno ad Augusto Monti di cui facevano parte maestri e coetanei quali Benedetto Croce, Piero Gobetti, Umberto Cosmo. Un gruppo di intellettuali antifascisti che in seguito ospitò per periodiche riunioni nella villa Germano di Sordevolo in provincia di Biella, buen retiro per la “pratica della libertà”.
Nel maggio 1929 venne arrestato per aver firmato, con Cosmo, Geymonat, Mila e altri, una lettera di solidarietà a Benedetto Croce, dopo che questi, oppositore in Senato dei Patti Lateranensi, era stato definito da Mussolini un «imboscato della storia»; dopo un mese di carcere, fu condannato a tre anni di confino ma la pena fu commutata in un’ammonizione.
La sua conoscenza del gruppo torinese di “Giustizia e Libertà” riunito nella redazione della rivista “Cultura” edita da Einaudi gli procurò, nel maggio 1935, un nuovo arresto insieme a Carlo Levi e Cesare Pavese, in seguito alla delazione dello scrittore Pitigrilli; Antonicelli fu condannato a tre anni di confino da scontare ad Agropoli: l’accusa era di «aver esplicato una subdola azione di fiancheggiamento del movimento “Giustizia e Libertà”» e di aver frequentato ambienti «dove notoriamente convenivano elementi avversi al regime».
Nella città cilentana lo scrittore vi giunse il 15 luglio 1935, un’afosa giornata meridionale. Anni dopo, quando ormai sedeva tra i banchi del Senato della Repubblica, Antonicelli scriveva nei suoi appunti: «Molti anni fa, prima della seconda guerra mondiale, un’occasione mi portò nell’Italia del Sud, giù dopo Salerno, e dopo la bellissima Paestum, e dove comincia il Cilento».
In quegli anni Agropoli era poco più di un paese; annotava Antonicelli: «c’è dietro la casa l’orto col pozzo (non c’è altra acqua), i “cuofani” per il bucato, le padelle di conserva di pomidori, che cuoce al sole e spande il suo odore caldo, piante di limone e d’arancio e nespoli e melograni». Un’esperienza amara, certamente, per il letterato confinato, ma che comunque rappresenta, quasi una dolce pausa, in un ritiro diverso e meditativo, in quel “pigro movimento”, come egli lo definì. Antonicelli gira sul territorio alla ricerca di conoscenze: annota, disegna, fotografa luoghi, persone, cose e raccoglie dalla viva voce dei locali le filastrocche, le canzoni, le ninna-nanne tipiche cilentane. Scriveva nel diario: «Nel paese, lungo un’alta, pittoresca scalinata, in ogni luogo vedi le donne, le bambine con la “muscitora” in bilico sul capo, uomini a gambe aperte sul sedere dei muletti, bimbi, numerosissimi e alcuni stupendi, mezzo nudi e sporchi che giocano e cantano… e vedo quella groppa di delfino che si incurva sul mare ed io la contemplo appoggiato a un tronco di fico che il vento ha fatto liscio e cinerino».
Aveva una certa libertà di muoversi, Antonicelli, in quei luoghi agropolesi; le sue erano passeggiate di meditazioni, scrutando il mare, quasi novello Robinson Crusoe, in attesa di un veliero che mai arrivava. E annotava: «Quasi sotto la casa è la spiaggia con barche e paranze e il mare che m’entra dal balcone. Si cammina un po’ e si trova il mare aperto, si scoprono le più deserte spiagge, le più selvagge solitudini e dentro uno scoglio una stranissima grotta, come una bocca di pesce, dove ci si stende al sole, o a cercar ombra».
Attimi di un poeta, forse “sognatore” che aveva un forte senso di rigore etico.
Ad una domanda di un giornalista di chi fosse suo padre, Patrizia Antonicelli rispose: «La raffinatezza dei modi e dello scrivere, il rigore nella scrittura, fosse un articolo o un bigliettino al giardiniere, i gesti affettuosi ed eleganti e la sua cultura enorme, raffinata ed estesa sono difficili da ingabbiare in qualche definizione. Bellezza e giustizia forse?»
Scriveva, in ricordo, Giulio Bollati di Saint Pierre, editore ed italianista: «Tendeva a una “umanità integrale” e la cercò nella vita pubblica e nella vita privata. L’opera stava davanti, era tutto da cominciare. Ma c’erano priorità da rispettare: il carcere, il confino, un tempestoso comizio contro il governo Tambroni, le lotte degli operai di Torino, Genova, Livorno, venivano prima di ogni altra cosa».
Fondatore della Casa Editrice Da Silva, Antonicelli pubblicò, nel 1947, il capolavoro di Primo Levi “Se questo è un uomo”, libro rifiutato da altre case editrici, come la Einaudi.
Durante il confino ad Agropoli, Franco Antonicelli sposò Renata Germano, figlia del notaio Annibale, nella cui villa di Sordevolo spesso soggiornava e incontrava gli amici.
Memore di quella presenza importante e, per tanti versi, “sconvolgente”, Agropoli dedicò a Franco Antonicelli il “Parco Letterario” che si affianca a quello di Sordevolo di Biella. Un atto di gran pregio politico che, in quei giorni di memoria, vide impegnato Gianni Grattacaso, fotografo per non morire di caratura internazionale, a ritrovare i luoghi vissuti da Antonicelli. E furono “Presenze”, dieci “istantanee” su pellicole polaroid, cercando Franco Antonicelli. Fu, per Grattacaso, un girovagare tra luoghi e appunti del passato a ricerca di emozioni; il fotografo lesse, osservò, interiorizzò sentimenti di luoghi da sempre conosciuti, mai prima guardati con l’occhio del cercare il non visibile. Per giorni Grattacaso ripercorse i luoghi frequentati da Antonicelli, rivisitò con amore e intelligenza un immaginario itinerario, appartenuto all’illustre confinato, impressionò pellicole a sospensione d’anima. Annotava: «la stenopeica mi è sembrato il sistema più adatto per andare a intercettare la presenza di Antonicelli». Poi, l’attimo dell’attesa prima di staccare la pellicola e la scoperta di ombre che diventavano “Presenze”, sino a identificarsi nell’immagine del personaggio, seduto su uno scoglio, quasi in attesa di questo fotografo di un futuro remoto. Soprappensiero dice: «Sono passati un bel po’ di anni da quando Antonicelli era su questa spiaggia, tra queste barche, tra i vicoli della città vecchia, ma ho sentito la sua presenza, la sua energia ancora palpitante in questi luoghi da lui frequentati».
Immagini di un passato ritrovato in un’altra e altrui dimensione, dove il fotografo si fa compagno di viaggio di una memoria da scoprire e fermare.
Quasi pensiero ad alta voce, Grattacaso dice: «A volte resto incredulo di fronte all’energia che mi invade d’improvviso e mi spinge a cercare cose invisibili alla maggioranza delle persone». Già! fotografare l’invisibile… ancor prima della domanda giunge la risposta: «se ti isoli in un metro quadrato e scatti le prime immagini visibili, succede poi qualcosa che ti svela ciò che non hai visto al primo colpo d’occhio e cominci a vedere altro. E questo mi emoziona veramente!».
Non è nuovo, il fotografo agropolese, ai viaggi nell’invisibile; precedente illustre furono lo sviluppo delle dimenticate e per caso ritrovate lastre fotografiche impresse dal principe Ascanio Vargas Macciuca signore di Vatolla che raccontava una società borghese e rurale di inizio Novecento. Si riguardano le dieci “istantanee” ed è quasi sequenza a rievocare… un’epoca, un uomo della nostra storia.
Nell’isola di meditazioni ove Grattacaso rincorre le sue immaginazioni, le sue emozioni, tra una lampada, un fondale e la camera oscura, tra pareti ricoperte da foto, immagini varie di visibile e invisibile, sembra ancora insistere un’alata presenza, qualcosa (o qualcuno?) sospesa nel tempo senza tempo.
Franco Antonicelli, confinato politico ad Agropoli, lasciò una marea di scritti, finiti e non, disegnini schizzati a matita accanto ad un elenco di cose da fare e ad uno schizzo di una pianta che aveva sulla finestra. E ritorna l’invisibile di Gianni Grattacaso: «Non so se Antonicelli è comparso subito e poi se ne è andato oppure è l’inverso. Certe cose a volte mi sono chiare solo dopo molto tempo». Di certo Antonicelli, a richiamo di Bollati, «riuscì a fissare nel futuro i fuggitivi fotogrammi del vivere».