Di Olga Chieffi
Sarà il premio Puccini, il soprano Anna Pirozzi, a rendere omaggio, al genio toscano e all’intera opera italiana, patrimonio dell’ Unesco, domani sera, alle ore 20, sul Belvedere di Villa Rufolo, ospite della LXII edizione del Ravello Festival. Il soprano, reduce dalla Turandot del LXX Festival Puccini, si presenterà al pubblico internazionale della perla della Divina, con la pianista Elda Laro e il Quartetto Lirico Italiano che schiererà Mirela Lico e Leonard Simaku al violino, Luca Pozza alla viola e Livia Rotondi al violoncello. L’omaggio comincerà con un portrait di Giuseppe Verdi, che sarà un’incursione nel II atto del Rigoletto col celeberrimo quartetto Bella figlia dell’amore. Questa pagina, oggetto di una delle più belle Parafrasi-Fantasie di Liszt, parte dalla stessa tecnica drammatica e musicale. È più conciso del Sestetto del Don Giovanni, non essendo diviso in sezioni; è nondimeno un pezzo d’insieme e d’azione e non solo di manifestazione di contrastanti sentimenti. D’azione, poichè nel suo corso idealmente si consuma l’amplesso fra il Duca e Maddalena e perché i sentimenti provati dai partecipanti sono un’ulteriore evoluzione della loro psiche. Ma quel ch’è straordinario, è che ciascuno dei quattro è un diverso carattere musicale e drammatico: il contrappunto di Verdi, fattosi dramma, congiunge, sovrappone, giustappone, quattro diverse figure ritmiche e tematiche. Aria di sortita di Anna Pirozzi, nei panni di Odabella dell’Attila, apparendo nella sua cavatina, quale “guerriera” indomita che vuole ad ogni costo vendicare la morte del padre e la rovina della sua patria. Il coro dei guerrieri barbari ha appena finito di inneggiare alla “possanza”, di cui Wodan cinge il re vincitore: “Urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine e stragi e fuoco gioco di Attila” (in pochi versi tutto quello che la storiografia aveva detto della crudeltà degli Unni), che Odabella osa sfidare l’arroganza del vincitore spinta dal “santo, indefinito, amor di patria…”. Lei è fra quelle “mirabili guerriere” che difesero i fratelli, e una di quelle “donne italiche, cinte di ferro il seno” che Attila vedrà sempre pugnare “sul fumido terreno”. Si passerà, quindi, all’Ave Maria dall’Otello, pezzo particolarmente commovente, situato alla scena seconda del quarto atto. Desdemona non comprende l’atteggiamento strano di Otello nei suo riguardi. Il Moro è ormai accecato dalla gelosia causata dal vile e sottile piano di Jago che lo odia a morte. Desdemona è confortata dalla sua dama di compagnia, Emilia, che la tranquillizza. Rimasta sola, la donna si avvicina all’inginocchiatoio che ha dinanzi una effige della Madonna e prega la sua accorata supplica: sarà l’ultima. I lenti e numerosi cromatismi aumentano il clima arcano; l’intonazione grave del canto tende ad esporre in suoni scuri il senso della preghiera; solo alle parole Gesù e all’invocazione “prega” ripetuta diverse volte, aumenta il lirismo e l’intensità, con l’intento di caricare l’azione e la resa del testo. Ma è, in special modo, alle parole “pel possente misero anch’esso”, e “sotto l’oltraggio piega” che Desdemona spiega tutte le sue capacità di soprano in acuti non da capogiro, ma senz’altro particolarmente penetranti e ispirati. Al termine della preghiera ella resta inginocchiata, appoggiando la fronte all’inginocchiatoio ripetendo moralmente l’orazione. Non si odono che le prime e le ultime parole della preghiera “Ave Maria” e “nell’ora della nostra morte”. L’Amen finale, che sigilla il tutto riportando i cromatismi suddetti alla rigorosità di una tonalità ben precisa, chiude il canto e, con esso, l’esistenza terrena di un amore sventurato, che ora non può far altro che rivolgersi alla piena di grazia. Si passerà, quindi a Giacomo Puccini con il preludio al III atto dell’Edgar che è quanto meglio ci sia di questa opera, una sorta di poema di valenza simbolica, in cui attraverso temi che abbiamo già ascoltato negli atti precedenti e annunci di nuove melodie in un gioco di controcanti per rappresentare l’aspetto conflittuale del personaggio, mentre un secondo tema tenero ed emozionato introduce Fidelia, proprio con le note che canterà in coda ad “Addio, addio mio dolce amor!”. La Pirozzi eleverà questo arioso, che è un primo piano del personaggio, pagina di una bellezza estatica senza confronti, tratta dall’ Adagetto per piccola orchestra, partitura giovanile che anticipa quasi scorci lirici mahleriani. Appunto la macerazione, il malinconico afflato, un decadentistico reclinare così giusto, qui, per il canto e il congedo sofferto di Fidelia da Edgar, che parla già il linguaggio che apparterrà a Mimì. Il quartetto eseguirà quindi una trascrizione della Sinfonia del Don Pasquale, con il suo solo di violoncello che riascolteremo senza variazioni. La sinfonia, principiata dalla languida melodia di quella che sarà, nel terzo atto, la “serenata” di Ernesto, s’impernia poi sul frizzante motivo della cavatina di Norina “So anch’io la virtù magica”, mentre il terzo tempo ha a tratti un sapore rossiniano, forse troppo scoperto. Quindi, da Donizetti a Rossini il passo è breve e del genio di Pesaro, Anna Pirozzi canterà “ Giusto ciel! in tal periglio”, dal III atto de’ “L’assedio di Corinto”. La cantante sarà Pamyra e dovrà rendere all’uditorio l’emozione dell’ultima preghiera, l’estrema speranza rivolta al cielo carica però della mestizia di chi già si sente condannato, non lontana da quella di Desdemona.
La formazione proporrà, quindi, l’intermezzo di Manon Lescaut, pagina strumentale che rappresenta senza dubbio una risorsa geniale: inserita a metà dell’opera, con quel suo lirismo caldo e fremente, essa segna un momento decisivo dell’azione e avvia al suo culmine la linea del dramma. Prevalgono, qui, disegni di terzine che acuiscono l’atmosfera emotiva e annunciano lo svolgimento degli ultimi due atti, l’intensità di un crescendo drammatico non già determinato da frequenza di situazioni sceniche, ma dallo stesso incalzare, dall’esacerbarsi disperato della passione dei due amanti. Ed ecco la Mimì, del III quadro, di Bohème, quello della Barriera d’Enfer, ove non c’è speranza, “lo sgelo” non viene, preludio alla morte. L’aria “Donde lieta uscì” è un’autentica gemma, un’oasi di tenerezza e dignità per il soprano, la vita è asciugata dal pizzicato dei contrabbassi, ma appena l’invenzione allarga a rosa la melodia e lo strumentale, all’ingresso di Mimì, il gelo mostra di aver già stampato sui volti, sulle carni, il color mortis. Ascolteremo, poi, dal quartetto, la Tregenda dalle Willis, una piccola “Cavalcata delle Walkirie” che taluni critici consideravano derivata da Bizet. Idee dispiegate e giustapposte, unite e disperse in modo teatrale, tal da tenere sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore. La Pirozzi sarà, indi, Tosca nel momento supremo del “Vissi d’arte”, la cui melodia è caratterizzata da linee lunghe e liriche, che permettono al soprano di mostrare la purezza e la potenza della propria voce. La scrittura orchestrale di Puccini sostiene e amplifica l’espressività del canto, creando un’atmosfera di dolore e speranza. L’aria è un momento di introspezione profonda per Tosca, una preghiera disperata e una dichiarazione di innocenza, il “Risolvi” di Scarpia non riuscirà a fermare cadenza e applausi, un cadavere ci sarà alla fine del secondo atto e non sarà quello del Cavalier Cavaradossi. L’ultima parafrasi del Quartetto lirico italiano con pianoforte sarà dedicata al Trittico: Tabarro ove aumenta la carica verista, ma si indulge al bozzetto, alla fotografia, evocato dalla introduzione tardoromantica al duetto “‘O Michele? O Michele?”, a seguire l’intermezzo di Suor Angelica l’orchestrazione lucida, trasparente come una vetrata di chiesa con una qualità arcaica che rappresenta l’esasperazione della suora e terminare con Gianni Schicchi dove ad un pianto struggente segue una lunga sghignazzata, con tutta quella possibile monelleria interamente toscana, che passerà il testimone all’ultima uscita della Pirozzi per “O mio babbino caro” parodia gaglioffa del lamento, che chiuderà il programma ufficiale, aprendo la porta ai fiori e ai bis.